Minuscole fate, granelli brillanti, volteggiano in un caldo raggio di luce.
Anni allegri e stagioni tristi, lettere, sedie impagliate, cianfrusaglie di bancarelle, stupide cose regalate che non si possono buttare giacciono sotto lenzuola ingrigite e un lucernaio splendente come una finestra aperta sul paradiso stesso. Le voci dal piano di sotto sono confuse, la soffitta non vuole sentirle, o forse è lei a non volerle ascoltare.
Il silenzio la fa camminare sulle punte e l’odore secco le asciuga il naso e la gola. O forse è solo il cuore a battere troppo forte, troppo in alto, per poter respirare. La mano destra è stretta da far male, il palmo è umido di parole non dette.
Un mese, un anno, quanto? Aveva smesso di contare i giorni di silenzio.
Un imprevisto, una riunione, un’amica: bugie. Sente le bugie in gola come gomma che si espande, e quella cosa in mano che le buca la carne, ma la stringe come se potesse volarle via.
Era una bella giornata di Settembre, una giornata di cielo azzurro e luce accecante: l’estate non voleva andarsene. L’eco della porta sbattuta, pugni sul muro, urla strozzate.
«Non sono più una bambina!» aveva strillato.
Vorrebbe sorridere, ora, ma i suoi occhi sono di diverso avviso. Quanto della donna che si credeva allora è qui adesso? Quanto della sua inestinguibile rabbia si è spenta un gradino tarlato dopo l’altro?
Era una notte di Novembre, il vento era un sabba di streghe, i vetri tintinnavano graffiati dalla pioggia. La guancia le bruciava, lo sguardo negli occhi di sua madre era terribile. Pensava che il buio e la tempesta l’avrebbero coperta ma lei, nella sua vestaglia bianca, gliel’aveva strappata di mano stringendola forte. Forte come se avesse potuto volare via.
E poi uno schiaffo senza rabbia, uno schiaffo deluso.
«Ti odio!» e l’ennesima porta sprangata.
Alza il lenzuolo bianco. Hanno spostato la cassapanca in soffitta
quando c’è stato bisogno di spazio per il letto e le medicine. È così insignificante, così minuscola ora. Cerca di ingoiare la massa spugnosa che ha in gola. Apre la mano: tiene la chiave come una reliquia. È più scura di come la ricordava, la sfera di porcellana è scheggiata, la chiave è invecchiata sola come sua madre.
Era una mattina di pioggia leggera e troppo fredda per essere Maggio, quando chiudeva la portiera senza guardarsi indietro.
«Portala nella tomba» bisbigliava al volante.
Prende la chiave tra l’indice e il pollice, era sempre stata così piccola, così dozzinale? La mano trema, la chiave non entra, stridio di metallo. Quando il piccolo foro la ingoia, apre le dita quasi avesse in mano un tizzone ardente e si tappa la bocca.
Era un lunedì grigio davanti a una tazza di caffè quando le arrivò la telefonata. Aveva mantenuto la voce indifferente ma la tazza era finita a terra.
«Pochi giorni» aveva detto il telefono.
La immagina girare, immagina il suono della serratura che scatta e il cigolio del coperchio. Sente l’orgoglio, i lunghi silenzi, l’irritante squillare a vuoto del telefono e il tempo che innalza mura e torrioni.
È una bella giornata di sole quando lei chiude gli occhi e le labbra per l’ultima volta, coperta come i suoi segreti, da un lenzuolo bianco e ruvido, dimenticata in una soffitta di infermieri indifferenti e dottori indaffarati.
La luce danzante illumina il legno vecchio e le minuscole fate vi si posano sopra. Lei immagina le fotografie di quell’uomo che tanto voleva conoscere, le sue lettere, le stupide piccole cose che a lei non avrebbero raccontato se non la colpa e la testardaggine.
Quella notte non era stato l’odio, ma l’orrore di non saperla proteggere, di non saperla allontanare da ciò che le aveva strappato il cuore e inaridito gli occhi.
Ora le fate danzano intorno alle lacrime che il pavimento beve così avidamente, le scale singhiozzano come gli ospiti in nero al piano di sotto, la chiave sbeccata spunta dalle labbra serrate della cassapanca.
«Grazie» sussurra al legno chiuso, e la luce e la polvere le dicono addio.