Me la presentarono una sera, in uno stupido locale rumoroso, il Thirteen, in compagnia di amici ancor più stupidi e rumorosi. Mi fissava con quegli occhioni scuri da cerbiatta, le sorrisi obliquo, ricambiò. Mi intrigava, non so dirti il perché. Forse era il suo look dark retrò, tutto nero, tutto croci e catene d’argento, o forse era la sua bocca troppo rossa e carnosa per quel volto magro e accuratamente pallido. Oppure, più probabilmente, perché non abbassava lo sguardo come facevano tutte le altre.
Quando vidi che l’accompagnavano sottobraccio a un tavolo mi aveva ufficialmente conquistato. Chiesi informazioni: single da sempre, cieca dalla nascita. Diamine, eppure mi seguiva, mi “vedeva”. Ma era abile, lo faceva quando era certa che nessuno la osservasse; per il resto recitava bene la propria parte. Non sono un tipo che si lascia impressionare facilmente, capirai fra poco il perché, però ne rimasi colpito: la tipa mi piaceva proprio. Scansai senza troppi riguardi un tizio belloccio facente funzioni di accompagnatore, e mi sedetti accanto a lei.
«Ciao splendore, che ci fai in questo buco?» dissi sfoggiando il mio miglior tono da rimorchio.
Una risposta mi rimbombò nella testa: aspettavo che venissi a parlarmi. Ci hai messo un bel po’. Era una cazzo di telepate. Rimasi con un sopracciglio sollevato e il sorriso da scemo: avevo trovato l’anima gemella, capisci?
Non dovemmo dire una parola.

Dopo un’ora passeggiavamo alla volta del mio villino, dopo quaranta minuti eravamo a letto, dopo altri trenta eravamo la coppia più affiatata del mondo; e sfido chiunque a contraddirmi. Siamo fortunati, non dobbiamo buttare un sacco di tempo in conversazioni inutili sui gusti, sui sogni e le aspirazioni, niente segreti, niente incomprensioni; le nostre menti erano lì, aperte e disponibili, a soddisfare in un istante le curiosità più morbose che potevano venirci in testa. Non potevamo impedirlo, è chiaro, né abbiamo tentato di farlo. A che scopo? Parlare è una faccenda così lenta e complicata.
Ti spiego: immagini un concetto – va bene? –, un’idea. La traduci in parole, la esprimi al meglio che ti riesce soffiando aria, e il tipo dall’altra parte non capisce un tubo e ti risponde una qualche banalità.

È così che nascono le guerre, amico mio.

Con lei tutto questo non accade: immagino un concetto e questo zap è già nella sua testa. Mi dispiace per voi normali ma non sapete proprio cosa vi perdete. Tanto per non fartela troppo lunga: lei iniziò a vivere con me, e anche adesso è a casa (la stronza!).
Come lo so? Che domanda cretina! Io so sempre dove sia e quello che fa, è questo il bello di essere telepatici: si risparmia un sacco sulla bolletta del cellulare.
Dai, questa faceva ridere, fammi un sorriso.

Col tempo ha imparato a schermarsi, sai? Lei è in grado di sorprendermi, sa di essere l’unica a potermi impedire di leggere in quel bordello di cranio che si ritrova. È più forte di me, e ne approfitta per farmi dei giochetti. Non mi lamento, a me piacciono le sorprese e i regali, ne ricevo così pochi. Credo che tu non ci abbia mai pensato, eh? Cosa significhi per un bambino essere un telepate. Fin da quando avevo sei anni non ho più avuto il piacere di scartare un merdoso pacco colorato. Le menti dei miei genitori e dei parenti, comprese le zie tardone, mi riversavano nella testa le immagini della batteria di plastica con i piatti, della trombetta belante, della chitarra con le corde di nylon – mi viene il sospetto che i miei volessero che diventassi musicista –, e mai una cazzo di costruzione o una pistola, un fucile con le ventose, come tutti gli altri bambini.
E poi si lamentano che a quindici anni me ne sono andato di casa. Per forza! Ero un bambino triste, telepatico, e ossessionato dagli strumenti musicali!

In ogni caso il bello dei regali sta nell’immaginarsi che ti abbiano comprato proprio quello che speravi di ricevere. Poi arriva la delusione, puntuale come la morte, però gli attimi dello scarto sono speciali. Almeno credo.
Devo ammettere che non sapere cosa mi aspetta mi eccita da matti. Io credo sia una sorta di dipendenza, sai? Tipo quelli che giocano alle video lotterie, o finiscono spennati a carte. Si desidera sempre quello che non si può avere.
Per farti capire: l’ultima volta che le è venuta un’idea simile l’ho trovata a casa con una tutina aderente stampata con la Gioconda – sì il quadro – che aveva tre buchi: tette, passera e culo.
Appena entro lei mi fa: sono o non sono un’opera d’arte?
Ti dico solo questo: ingresso, cucina, salotto, camera da letto, e abbiamo finito con un pompino nello sgabuzzino delle scope. Che serata.
Lasciamo stare dai, non mi piace vantarmi.

Pensi che questa maledetta pioggia smetterà mai? Scusa, sto divagando.

Ti chiederai il perché di tutto questo discorso, vero? Arrivo al punto; però per capire bene credo che debba anche raccontarti quello che è successo stasera. Sto tornando a casa in macchina. La pioggia batte sul parabrezza come se dovesse sfondarlo, arrivano certe sferzate che mi aspetto di vedere qualcuno che vola via da un momento all’altro. Mi mette ansia guidare quando piove, ma gli ultimi due semafori sono verdi: lassù qualcuno mi ama.
In breve eccomi a casa; è bello tornare dopo una dura giornata di lavoro, no?
Ed eccola laggiù la mia villetta, piccola ma accogliente, con il suo tetto spiovente, le mura bianche stuccate a graffiato, la veranda e il giardino. Arrivo e scopro che ha di nuovo dimenticato gli innaffiatoi accesi, con la pioggia, capisci?
Provo a sentire dov’è e non si fa trovare. A quel punto butto la macchina sul vialetto e corro in casa, azione più che sufficiente a farmi arrivare completamente fradicio al portone. Vomito orribili bestemmie, e sono dentro. Butto l’impermeabile sopra il portaombrelli. Non riesco a percepire i suoi pensieri e sono già un po’ eccitato: deve averla combinata grossa per schermarsi così tanto.

Mi segui?

Vedo la luce filtrare dalla porta smerigliata del salotto, piombo nella stanza già slacciandomi la camicia, e che ti trovo?
Un tubo di ferro, pieno di cemento, mi arriva dritto sui denti! L’ultima cosa che sento è il rumore del mio culo che sbatte sul parquet. Per la cronaca non è un vero tubo ma è un braccio umano. Poi buio.
Mi sveglio dopo un tempo indefinito, e ha smesso di piovere. Sono legato come una porchetta alla mia sedia preferita e di fronte a me ci sono, nell’ordine: King Kong, Godzilla, la Cosa dei Fantastici Quattro, e la signorina Rottermeier. Tutti in giacca e cravatta nera, camicia bianca, e facce di granito.
Mi guardo intorno sbattendo le palpebre. Credo di avere una decina di milioni di denti rotti in bocca, e sto sanguinando come una fontana. La signorina ha il volto appuntito e gli occhi di ghiaccio, le manca solo un frustino da cavallerizza e una lavagna. Mi sorride. Secondo me si allena davanti allo specchio.

«Cazzo ti ridi?» le urlo contro. E poi, dietro di lei, la vedo: legata sul divano, immobile. Indossa un vestito lungo, strappato all’altezza delle gambe: l’hanno picchiata.
«Figli di puttana» ringhio. «Vi strappo le budella e le appendo all’albero di natale. Rotti in culo!»
La draghessa parla, mi aspettavo un accento tedesco, invece ha una voce impostata da attricetta: «Abbandonarsi al turpiloquio non le servirà, e sicuramente non aumenterà la scarsa stima che ho di lei.»
«Arrotolati la stima e ficcatela su per il buco più stretto che hai!»
Mi arriva una padellata. Non è una padella, è una mano, ma Cristo fa male come una padella. Bene. L’approccio sarcastico non funziona.
«Ok. Che volete?»
Sempre con quel sorriso a fessura, la generalessa esprime tutto il suo compiacimento: «Mi avevano detto che era una persona ragionevole. Arrivo subito al punto: ci manda l’Albino.»
«L’Albino?!» sbraito. L’Albino, capisci? Perdonami ma è davvero un nome del cavolo, preso in prestito da un romanzetto noir da quattro soldi. Avevamo un contratto ben preciso, che non è stato rispettato. Quindi mi pare piuttosto ovvio pretendere un indennizzo, no? Non è giusto forse?!
Ma la tizia non è dello stesso avviso, e quando le spiego che tenermi tutta la roba mi sembrava equo, lei decide che i suoi tre scagnozzi hanno bisogno di fare un po’ di moto. Guarda qui, lo vedi? Questo qui non si rimargina mica, eh? Mi rimarrà la cicatrice, e chissà quanto dovrò spendere di chirurgia plastica. Non sono tirchio, anzi amo godermi la vita, ma se permetti, spendere un sacco di soldi perché uno che si fa chiamare l’Albino non sa perdere, mi fa piuttosto incazzare.
Ed è a questo punto che le cose si fanno complicate. Provo a entrare nella mente di lei, ancora stesa sul divano: niente. Comincio a essere preoccupato. Come diavolo hanno fatto a prenderla di sorpresa? Si sa, noi uomini ci facciamo tirare dall’uccello, e io mi sono fatto prendere alla sprovvista perché ero già con le braghe calate, ma lei? Potrebbe benissimo rispondermi senza muovere un muscolo e continuare a far finta di essere svenuta; perché non si fa viva?
Va bene, mi dico, smettiamola di fare i melodrammatici. Punto gli occhi sulla soldatessa e mi stampo in faccia un sorriso di vittoria: tre, due, uno e un bell’aneurisma non te lo leva nessuno.

Sai che è successo? Niente! Do la colpa alla stanchezza e alle botte in testa, allargo il mio sorriso e via, ancora più spinta mentale! Niente! Un cazzo di niente! Lei non si accorge nemmeno che ci sto provando.
Non potevo crederci, finire i miei giorni così, come un patetico idiota qualsiasi legato a una sedia. Soprattutto, mi prenderai per un sentimentale, ma ero preoccupato per lei. Vedo la massa di capelli neri muoversi, la vedo annaspare. Immagino che lei si trovi più in difficoltà di me non sentendo i miei pensieri, né potendo vedermi.
«Sono qui Evy. Sono qui. È tutto a posto!»
È la prima volta che le parlo dopo quattro anni. Tira un sospiro penoso, e si volta nella mia direzione per quanto può.
«Finiamola con questa puttanata» grido. Sono veramente incazzato ma i miei incisivi doloranti mi intimano di non esagerare.
«Che linguaggio» la capitanessa sussurra disgustata al mio orecchio. «Adesso che la tua amichetta si è svegliata vediamo di dare anche a lei una bella lezione. L’Albino è stato molto chiaro su cosa andava fatto. E tu devi guardare.»
Io inizio a dare di matto, e considera che sono un tipo flemmatico. Scalcio, sputo, urlo, strattono, cerco di dare capocciate in giro, e mi faccio scoppiare le tempie nel tentativo di ammazzarli, quei bastardi!
Lei fa un gesto a uno dei suoi, quello pelato che pareva La Cosa, questo ringhia come un pitbull e si avvicina a Evy armeggiando con i pantaloni. A me esce il sangue dal naso dallo sforzo; lei è spaventata ma non si rende conto di quello che sta succedendo. Cerca di sciogliere il nastro americano con cui le hanno legato le mani e le caviglie. Lui le arriva sopra, la sposta, come si farebbe con un sacco di patate, in modo che io possa vedere bene quello che sta facendo. A me sta scoppiando letteralmente la bile, non riesco più nemmeno a strillare, mi sembra che il mondo mi stia crollando addosso, vorrei mettermi a piangere, capisci? Io!!!
La gira sul divano, la vuole prendere da dietro. Io sto per implorare come una verginella che la lascino andare, quando succede il finimondo!
Alla signorina Rottermeier scoppiano letteralmente le cervella. Si sente uno sparo che mi assorda e mi fa fischiare le orecchie. Uno dei due gorilla le ha sparato alla nuca. Mi arrivano frattaglie addosso e mi vomito sui pantaloni nuovi!
L’altro scagnozzo tira fuori la pistola e la punta alla faccia del primo che, tutto sorridente, lo guarda e gli manda un bacino prima che gli scoppi la mascella. Io saltello sulla sedia manco andasse a fuoco e intanto comincio a capire. La Cosa aiuta Evy a mettersi in piedi, le strappa i legacci e si mette in ginocchio dinanzi a lei. Lei mi guarda e ride come una deficiente.
Altri due spari e sono tutti morti.
Sangue ovunque, il divano da buttare, il parquet è una schifezza, e io le strillo in faccia: «Puttana!»
Lei, candida come la neve, mi viene vicino, e scioglie il nastro che mi lega alla sedia.
Non è stato eccitante? mi fa.
Io non ho parole, o meglio la insulto in tutte le maniere che mi vengono in mente, e ne invento anche di nuove.
Lei, per tutta risposta, mi fa il broncio! Capisci?! Mi tiene il muso manco le avessi detto che non mi piace come cucina!
Guarda, sono ancora incazzato nero. Me ne sono andato, che dovevo fare secondo te? Ha organizzato tutto lei: quando ha sentito arrivare gli scagnozzi li ha presi tutti al laccio, si è fatta legare, ha finto di non potersi difendere, mi ha inibito in modo che non potessi controllarli e, come se non bastasse, mi ha invitato tutte le immagini di me che strillo come una collegiale che è finita in un club di rapporti anali a sorpresa!
E ci si è anche divertita!
Sei stato tanto dolce mi dice. Ci tieni davvero a me… Sono queste le piccole cose delle donne che ti fanno uscire di testa, non trovi?
Arrivati a questo punto capirai che non sono proprio dell’umore adatto a fare conversazione o a essere indulgente. Ci tenevo solo a spiegarti perché ci troviamo in questo scantinato puzzolente e perché sono due ore che sbavi e ti pisci addosso.
Un uomo deve anche sfogarsi qualche volta, no?

Ma posso farti una domanda, prima? Perché ti fai chiamare l’Albino?

Fine.