Boati.

Tonfi così frequenti e numerosi da somigliare ad uno scroscio d’acqua: milioni di pelli tese, tronchi cavi, e legni percossi senza sosta.

Vedo le cime di alberi vetusti, malsani, contorcersi sotto l’azione del vento irrequieto. Chiuso in una stanza candida, posso solo immaginare chi siano gli artefici di una tale orrida cacofonia. Il battere fortissimo supera in intensità l’uragano, e non mi concede riposo.

Per non impazzire completamente scrivo, scrivo su ogni cosa, e le pareti della mia cella sono ricoperte dei resoconti minuti delle mie giornate interminabili. Perfino la Morte, la bianca signora che tanto a lungo ho servito e venerato, mi deride battendo incessantemente al di là della foresta senza nome.

Incubi.

Erano così frequenti e vividi che non potevo più considerarli solo il frutto della mia immaginazione. Nella mia vita ben poche volte mi sono potuto appellare a rassicuranti illusioni, e la visione del vecchio pazzo, chiuso in una cella, mi perseguitava ogni volta che cercavo di riposare gli occhi. Provavo pena per il canuto scrittore, provavo rabbia. Una rabbia devastante, come di chi si vede sottratta ogni gioia, ogni libertà. Non potei non fare raffronti tra la condizione del vecchio e la mia.

Stavo forse dubitando del ruolo che avevo abbracciato con tanto fervore?

Il sussurro incessante dei miei predecessori aggiungeva confusione, e urgenza, e mi allontanava dalla comprensione della mia frustrazione. Dopo anni di cieca dedizione avevo raggiunto conoscenza primordiale e potere assoluto, così testardamente anelati, eppure la tristezza non mi abbandonava. In ogni caso non potevo tornare indietro, in ogni caso ero incatenato e vincolato a quell’unica scelta.

Spesso la libertà è semplice ignoranza.

Perfino chi abbandona ogni cosa, per mortificare le proprie carni e liberare lo spirito, diventa schiavo della fede e delle pratiche rituali. Io, che con un gesto avrei potuto alterare ogni particella del reale, io ero il meno libero di tutti.

I passanti, – li osservavo invidioso dalle imposte impolverate delle mie finestre -, non potevano definirsi liberi. Avrei potuto spazzar via le loro anime, condannarli alla follia delle Terre senza Tempo, costringere le loro volontà a piegarsi inesorabilmente alla mia, se solo avessi voluto. Non erano che incoscienti fantocci eppure, proprio per questo, camminavano svelti, indaffarati in chissà cosa, con i baveri sollevati e le teste spinte in avanti contro il vento, ignari di tutto ciò che è oltre la coda dell’occhio.

Io non potevo dire la stessa cosa di me.

Il vincolo che mi legava alle Fate mi toglieva la libertà di credere nelle piccole cose, di appagarmi di uno spiraglio di sole, o di godere della brezza che si leva improvvisa. Il vincolo mi permetteva di vedere con chiarezza ciò è il mondo: niente più che una vibrazione instabile dell’Onda, una conseguenza di una catena di eventi fragili e fondamentalmente senza scopo, ma che donava ai miei adorati passanti l’illusione di essere padroni del proprio destino.

Doveva esistere qualcuno a vegliare su di loro, e quel qualcuno ero io. Come potevo non amare un così elevato compito? Come potevo metterlo in dubbio? Come osavo non venerare le Fate e la loro scelta?

L’ansia e il dubbio, uniti alle visioni angosciose dello scrivano, mi avevano reso particolarmente nervoso. Rimasi nello studio per tutto il giorno, ignorando doveri e probabilità, riempiendo il silenzio con il ticchettare furioso dei tasti del mio computer. Per quanto l’umanità lo negasse fortemente, sempre nuovi temerari sognavano di poter dominare la materia, e lo facevano senza davvero comprendere l’ordine delle cose. Come speravano di manipolare la realtà con parole vuote e gesti teatrali?

Pensando a questo, il compito per cui ero stato scelto mi appariva più che mai giusto. Le Fate mi avevano donato gli strumenti dell’Arte per proteggere l’umanità dalla sua cieca avventatezza, per difendere i Reami del Tempo dall’invisibile  catastrofe dell’ignoranza. Ma quando ascoltavo il coro scomposto dei miei antenati, sospettavo che il motivo per cui le Fate mi avessero eletto a Custode non fosse così nobile. C’era un senso di sconfitta e di pericolo sempre presente nel loro parlare, un avvertimento che mi invitava ad aprire gli occhi, e mi sentivo vile e ingiusto e meschino.

E passò il giorno.

Sul far del crepuscolo avvertii formicolare le dita e il brivido della realtà che cambia. Ecco, mi dissi, una nuova chiamata. Abbandonai l’oblio meccanico, la penombra rassicurante del mio studio e il frusciare ritmico del traffico, per prepararmi ad essere per l’ennesima volta il Custode, la mano inflessibile delle Fate, tesa a portare temperanza e giustizia.

E attraversai le ombre per compiere il mio dovere di assassino.

Quando la Soglia si dischiuse io ero lì, immobile nelle tenebre in attesa, i pugnali d’aria stretti in mano, il volto coperto dalla terribile maschera del Custode, verso la quale gli stregoni bisbigliavano scongiuri a bassa voce, poiché il suo nome stesso era maledizione e anatema. Ma la Soglia verso gli altri mondi rimase muta, la porta aperta inutilizzata.

Esitai. Mi fermai a guardare.

Non avvertivo intelletti in grado di riverberare nell’Onda, di portare turbamento e distruzione. Non udivo l’eco dei canti e delle litanie, l’odore delle polveri, il sapore acre delle anime in cerca di dominio. Che avessi commesso qualche errore? Le voci dei miei antenati, però, dicevano che era giusto: il luogo è questo, il luogo è questo, e in qualche modo guidarono i miei occhi verso di lei.

In una stanza bigia, sospesa in un angolo di un alto palazzo di cemento e ferro, una donna dagli occhi tristi annaspava nell’infinita palude della sua solitudine. Voleva morire, e ritagliando tredici colpi di rasoio sulle sue carni, aveva imbrattato il tappeto invocando la fine del genere umano. Quei fanciulleschi rituali non avrebbero smosso la più innocua delle creature al di là del Tempo, ma l’uomo ha in sé un grande potere che non conosce, e la Soglia si era comunque aperta, il peccato era stato consumato.

La donna era incosciente, riversa su un liso divano marrone, madida di sudore, imbrattata di sudiciume. Le ferite che si era inflitta l’avevano fatta svenire, e il suo respiro era un canto di agonia che sarebbe durato per delle ore.

Uscii dalle ombre non visto, scacciai i pugnali e la maschera: per quale pubblico tanto teatro? Spinsi col piede una bottiglia di crema di whisky vuota lasciata su un pavimento ingombro di cianfrusaglie, provai una grande tenerezza.

Chiusi la Soglia con un gesto distratto della mano. Era una piccola e innocua falla che sarebbe svanita da sola: un peccato veniale, eppure non mi era permesso essere clemente. La legge delle Fate era inequivocabile, vergata sulle rocce amaranto nei caratteri di tutte le lingue: nessuno, nei reami del Tempo, può avventurarsi oltre la Soglia, pena è la fine del corpo e dell’anima.

I miei antenati, stranamente, tacevano.

Osservai quel gracile corpo, la sua testa tonda, i capelli rasati, i tatuaggi a gridare al cielo la sua unicità. Avrei dovuto conficcare le mie lame perfette in quella schiena indifesa? In quella carne che già stava soffrendo per la sua incapacità di vivere, e sbracciava solo per far sapere al resto del mondo che lei era lì?

Non sarebbe stato sufficiente che me ne andassi? Sarebbe morta in ogni caso, la Soglia era chiusa, il continuum era intatto, eppure la volontà delle Fate continuava a ordinare omicidio e punizione.

I miei antenati guardavano dai recessi della mia coscienza aspettandosi qualcosa da me: presi la ragazza tra le braccia. Era leggera, il suo corpo come liscia seta ripiegata, e fredda e umida come le notti nebbiose. Attraversai le ombre e lo spazio, stringendola a me, tornando nel mio inaccessibile santuario, mentre la realtà scorreva indifferente intorno e l’eco dei comandi a spegnersi lontano.

Cosa stavo facendo?

Uscii dall’oscurità nella mia dimora e adagiai la donna sul mio letto, badando a non far urtare le sue membra ossute. Imposi le mani sul suo corpo e costrinsi la vita a non fuggire da lei. In quel momento non compresi cosa mi spinse a farlo, ma ero sereno e provavo l’inopportuna eccitazione dell’incertezza. In passato avevo giustiziato più di un colpevole senza il minimo indugio, non era la capacità di uccidere che mi faceva difetto. A decine avevano conosciuto il gelido abbraccio delle mie lame, senza che il più pallido rimorso agitasse i miei sonni, eppure non mi risolvevo a compiere il mio dovere. Quella donna era nient’altro che una bambina innamorata delle stelle, con solo un fiammifero per sognare. Com’era dolce il suo respiro calmo ora, com’era bella la sua pelle candida e decorata che raccontava la sua storia, i suoi timori, le sue speranze.

Una sensazione di oppressione mi costrinse a sedere.

La stanza gonfiò le sue mura esplodendo in particelle iridescenti. Mi trovai al di là del Tempo e le Tre Fate comparvero, splendide nelle loro vesti virginali, i volti identicamente adirati, gli occhi verdissimi dardeggianti di odio primigenio.

Le loro voci erano tuono e tempesta, e il vento impetuoso dell’Onda mi spingeva verso le acque morte dell’Oblio.

Meritavo punizione per la mia misericordia? Gridai.

Cos’è la giustizia senza pietà? Gridai.

A che scopo la Legge senza  redenzione? Gridai, ma il vento strappava dalla lingua le mie parole e le sbriciolava contro i pilastri del tribunale.

In quell’istante compresi i moniti dei miei predecessori: esse non amavano la vita, non volevano proteggerla. Era la paura a guidare le loro mani e i loro gesti e, terrorizzate dal perdono, reprimevano all’istante chi osava deviare dai loro dettati.  Il vecchio scrittore, condannato in una realtà folle, in un tempo statico senza speranza, altri non era che uno sventurato prescelto che aveva sfidato la volontà delle Fate.

Mi aspettava un destino simile.

Il turbinare dell’Onda impazzita, scossa dall’ira delle Tre, lacerava la mia vibrazione e mi procurava un dolore ben al di là di ogni umana sopportazione. La concentrazione necessaria a mantenermi coeso, ormai, era un filo sottile, prossimo a condannarmi al nulla, eppure mi aggrappavo a una scintilla, a un tepore flebile di carbone e cenere, un respiro che dormiva sul mio letto e che avrei perduto per sempre. Il pensiero immondo della sua scomparsa faceva stridere i miei denti e spezzare i miei muscoli nello sforzo di non finire disperso nel vento della loro ira. I tre volti, così meravigliosi quanto duri come acciaio, gridavano il loro ineluttabile intento: oblio. Oblio e dannazione.

Improvvisamente il silenzio.

Stremato, angosciato, mi guardai intorno immaginando gli orrori infiniti della sconfitta, quando vidi il volto del vecchio scrivano. Con gli occhi lucidi di una febbre mai spenta, mi guardò dal centro della sua stanza bianca. Speranza, paura, coraggio, vendetta, danzarono insieme sulle sue rughe millenarie. Mi aveva attirato mentre l’Onda vibrava, mentre il grido delle Fate lo celava al loro orecchio, l’unico istante in cui la cella perdeva un po’ della sua consistenza, per trasmettermi una verità che mi abbagliò con la sua semplicità.

E risi forte, senza contegno.

Non lo ringraziai, non ne ebbi il tempo, però i suoi occhi velati compresero ciò che mi accingevo a tentare e ne furono illuminati. Avvertii in lui l’orrendo sollievo del castigo che era anche mio. Agii in fretta, mi abbandonai al vento, ma prima che la mia anima si disperdesse, sfruttai la spinta, affilai la volontà come un dardo e la scagliai verso quell’unica, distante e insignificante goccia di stella. Scappai nell’unico luogo in cui non avevano potere, l’unico luogo che le terrorizzava più dei tentacoli della follia: la mia casa dalle persiane sulla strada, i miei amati passanti, la mia realtà fatta di tempo, pioggia, e lunghe ore in solitudine.

Tornai come se nulla fosse accaduto. La mia fu una ribellione senza eserciti e senza stendardi, un conflitto impalpabile, una conquista dal costo infinito. Lei era distesa sul letto e dormiva piano, io le ero seduto accanto e fluttuavo tra l’estasi della vittoria e lo sgomento della vendetta. Barcollai alzandomi, ero sconvolto e fuori dalla mia abituale compostezza poiché ogni passo, ogni pensiero era sofferenza. Per sfuggire all’oblio avevo lacerato la mia mente, ferite così profonde che avrebbero impiegato secoli per rimarginare, e l’odio delle fate avvelenava la mia anima condannandomi a notti infestate da incubi mostruosi, a interminabili macchinazioni e inganni, all’eterna spossante vigilanza, ma ero libero.

Sarebbero venuti giorni di guerra, una guerra segreta che nessuno mai avrebbe potuto vedere, ma gravidi di così tante trame nelle possibilità da giustificare ogni istante di pena, ogni fatica. La piccola figura nel mio letto si svegliò, e un po’ di quel malessere, di quei tetri pensieri, scomparve. I suoi occhi tristi si girarono verso di me, sorrise con labbra screpolate.

***

Manderanno altri emissari a cercarmi. Forse proprio in questo istante la voce suadente delle Tre sta corrompendo la volontà di qualcuno, promettendogli potere sopra ogni cosa, tacendo sui doveri dolorosi che questo compito porta con sé, e sugli scopi infimi che muovono i loro passi.

Ora osservo le persone, gli ignari passanti che mai conosceranno le conseguenze del mio agire, e una mano esile dalle dita fredde mi cinge le spalle. La mia fanciulla dagli occhi tristi, la mia piccola stella morente, ora abita con me e si abbraccia alle mie spalle cercando calore dal mio corpo devastato dalla febbre. Le bacio le punte delle dita, mi sento osservato e vulnerabile eppure felice.

Le Fate mi spiano, controllano ogni mio movimento, le sento strisciare oltre la mia vista, agitare le loro vesti nella penombra, tessere desideri tra le ombre, ma le parole del vecchio recluso mi danno la forza di proteggere il mio piccolo tesoro dagli occhi tristi: “Esse temono il tempo.”

Fine.

Foto di Enrique Meseguer da Pixabay