Era ottobre e faceva caldo.

Finito il solito giro di riscossioni, io e Bretella ce ne andiamo al bar. E’ una di quelle serate in cui anche questo schifo di città sembra bella: la brezza frescolina dalla baia, le nuvole chiare oltre la cappa di smog. Perfino l’odore di rancido del vicolo ha un che di romantico: non fetido ma fruttato.

Bretella è contento. Nonostante i  suoi quasi duecento chili per un metro e quarantacinque, saltella felice come un cane. E chiacchiera in continuazione, con quella sua vocetta nasale, del suo sassofono, della sua band, delle sue bretelle nuove. Parcheggio nel garage dell’Agenzia; lui mi aspetta davanti alla porta di legno del bar, tra un cassonetto e una coniglietta di resina vestita di rosso. Entriamo.

Il bar ha un retrogusto viola. Il proprietario, Corinzio, lo tiene sempre in penombra, dice che fa atmosfera, ma tutti sanno che lo fa perché è taccagno. Usa solo lampadine che danno sull’indaco e quindi tutto prende toni violetti: le facce smorte di chi sta curvo sul bancone, le palle dei biliardi, il fumo dei sigari e delle sigarette, gli hamburger unti, tutto. Ecco perché ha un retrogusto viola.

“Ehilà giovanotti,” ci saluta Corinzio. “Che vi do?”

E’ un uomo altissimo, magrissimo, con una barba da marito divorziato accuratamente non rasata e color bianco latte, – che nell’atmosfera indaco è praticamente fluorescente –, e due spilli marrone come occhi ma molto svegli. In effetti Corinzio è uno in gamba: nonostante il quartiere, nonostante le bande, nonostante noi, è sempre rimasto aperto.

“Due bionde.” Sventola Bretella che a stento riesce a mettersi seduto sullo sgabello.

“Arrivano.”

Corinzio è uno scrupoloso. Spilla le birre col bicchiere leggermente inclinato, tira la leva con sapienza. Pare un macchinista di treno a vapore.  Dosa con maestria e ottiene due pinte bianche e gialle. Posa i bicchieri sul bancone di legno, le fa scivolare sui graffi e le scalfitture. Non lo cambia il bancone, Corinzio, fa atmosfera.

“Che si dice ragazzi?” chiede appoggiando i gomiti sul ripiano e guardandoci a turno. Deve stare bello incurvato per non sbattere sui bicchieri appesi. Ha voglia di chiacchierare stasera, è un po’ nervoso, del resto da queste parti circolano solo poco di buono.

“Solite cose,” Bretella si da un tono. “Abbiamo fatto il giro per Maresca.”

“Una buona raccolta?” Corinzio si sporge ancora più in avanti con aria complice, e Bretella lo asseconda inclinando la testa tonda e rasata.

“Il solito. Si fa parecchia grana con quelli del porto. Sai? Dopo l’incendio del mese scorso, una tragica fatalità, sono diventati tutti più disponibili.” Bretella non la smette di fare le virgolette con le dita tozze, e posa e riprende il bicchiere in continuazione. Io bevo senza dire una parola.

I due vanno avanti così per un po’, a fare i duri, i malavitosi da film. Non è un granché ma ha un sapore familiare: quanti anni sono che vengo qui? Tanti. E’ una specie di seconda casa, un rifugio per mezze tacche criminali. Tutti si immaginano i gangster armati che sfidano la polizia, i rapinatori arditi che fuggono dalle banche, i truffatori pieni di soldi. La verità è un’altra: esiste un sottobosco di manovalanza patetica, piccoli impiegati del crimine che, come me e Bretella, tirano a campare senza via di scampo.

“Certo che fa caldo per essere ottobre!” commenta Bretella esaurito l’argomento estorsioni. “Pensa che stamattina, mentre aspettavo questo qui, ho visto una margherita.”

“E basta.” Sbotto io. “E’ la decima volta oggi. Hai rotto con ‘sta primula.”

Bretella si gira verso di me, lo sgabello scricchiola. Si punta l’indice grasso alla tempia.

“Ti pare normale?” chiede. “Una cazzo di primula che spunta da sotto un mattone! Qui! A ottobre!”

“E’ un inverno caldo, non è mica la prima volta che succede. E per far nascere uno stramaledetto fiore basta un po’ di terra. Il quartiere è pieno di sterco fino all’orlo, figurati se non c’è un po’ di terra.”

“Beh. A me mi ha impressionato.” Bretella mette un broncio teatrale e si attacca al bordo del bicchiere.

“E’ il microclima.” Pontifica Corinzio. “Anche se per il resto del mondo dovrebbe iniziare l’autunno, qui con lo smog, l’umidità, i gas di scarico, si forma una cappa.”

“Eh! Una specie di serra! E noi siamo dei pesci. Dai retta a me.” E inizia lo sproloquio di Bretella sull’effetto serra, sulla vita in città, sull’innaturalezza delle margherite a ottobre e sui ‘pesci in serra’.

Io mi piego sul bacone e faccio per spegnere il cervello, quando qualcuno mette su un tango. Ci metto un po’ a capire cosa è successo: nessuno cambia mai la musica del locale. Una bettola frequentata da rifiuti umani si accontenta delle lagne jazz di Corinzio, non ficca soldi nel jukebox. Non mi ricordavo nemmeno ce ne fosse uno, pensavo fosse da arredamento. Mi guardo intorno con circospezione, -ci vuole poco a rimediarsi un cazzotto in faccia qui -, e la vedo.

Faccio un cenno con la testa nella sua direzione e dico: “Ohi, Corinzio, chi è la milf?”

Bella. Età indefinita sopra i trenta, capelli neri e lunghi raccolti in uno chignon elegante, trucco da star, occhi di un celeste ghiaccio, bocca carnosa e perfetta da sembrare finta. Si allontana dal jukebox con passo lento e cadenzato, fasciata in un vestito lungo e nero à la Morticia, non si cura degli sguardi, non si cura delle lamentele degli altri clienti. I giocatori di biliardo si spostano appena per farla passare. Vorrebbero dire qualcosa, fare un commento, essere ‘machi’ e sprezzanti ma stanno zitti e, quando si siede da sola a un tavolo, borbottano sulle donne e sui culi.

“Roba pericolosa.” Sentenzia Corizio. Bretella tira giù un paio di moccoli e fa commenti su tette, fianchi e posizioni a letto. Lui che chiama la coronarica ogni volta che fa una rampa di scale.

“Che vuol dire? Chi è?” chiedo, ma non riesco a toglierle gli occhi di dosso, parlo con Corinzio eppure sono già seduto lì.

“Non so chi sia, non spiccica parola praticamente con nessuno, e passa di rado:  un paio di volte all’anno.”

“E come mai non l’ho mai beccata prima? Sto qui tutte le sere!”

“Già,” fa Bretella. “Praticamente vede più te che sua moglie!”

“Di solito va via prima, verso le sei, sei e mezza. Sta sempre sola. Beve forte. Whiskey di marca, roba costosa.  Paga in contanti. E’ una tipa strana. E’ l’unica che usa il jukebox e mette ‘sta lagna triste da balera.”

“E’ un tango.”

“Non ha swing.”

“Ma vaffanculo.”

Bretella ride.

“Di chi è?” faccio io. Mi sembra assurdo che una tipa del genere, con tutto quel ben di Dio, possa rimanere sfitta a lungo.

“Non lo so. Ma nessuno le parla, nessuno si avvicina. Per questo ti dico che è roba pericolosa. Ogni tanto chiacchiera al telefono, sorride poco. Io mi faccio i fatti miei, non si sa mai. Qui di solito circolano solo poveri diavoli, sfigati come voi e me, se una del genere viene qui è perché ha qualcosa da nascondere e ha alle spalle qualche pesce grosso, te lo dico io. Sa di essere intoccabile, altrimenti non verrebbe senza accompagnatore.”

Il tango giunge alle sue ultime volute, la musica si arrotola nell’aria come fumo, mi arriva al cervello, allo stomaco, ho voglia di stringerla, di sentire la seta del suo vestito sotto le mie mani, la linea curva dei suoi fianchi, la morbida solidità dei suoi glutei. La fisso, la desidero, e lei si alza di nuovo. Butta giù, con un gesto un po’ volgare,  l’ultimo sorso di liquore. Ha ragione Corinzio, beve forte. Sul tavolo quattro bicchieri vuoti e qualche goccia che riflette di indaco. Ancheggia fino al macchinario musicale lampeggiante, apre la sua piccola borsetta nera, costosa, infila una moneta, schiaccia un bottone. Nel tornare al tavolo fa un gesto a Corinzio, muove appena l’indice e il medio della mano sollevata, ha le unghie laccate di nero. Non poteva essere altrimenti.

“Sta per andarsene.” Dice Corinzio a mezza bocca mentre si volta per preparare un cocktail. “Fa sempre così: quattro, cinque, whiskey, un paio di canzoni, e poi mi chiede un succo di frutta al melograno. Lo beve e se ne va.”

“Te la sei studiata bene per essere una che vedi due volte all’anno…” commenta Bretella con fare porcino e fa scivolare il bicchiere vuoto sul bancone.

Corinzio lo guarda come si guarda una cacca di cane.  “Perché tu adesso te la scordi? Tu te la sogni stanotte, te lo dico io.”

Bretella sbatte il bicchiere sul bacone e ride.

“Dammi il succo.” Gli dico.

“Eh?”

Spingo via il mio bicchiere e mi alzo dallo sgabello, continuo a guardarla, lei fissa il centro del suo tavolino, non sa nemmeno che esisto. Il tango cresce, note che si inseguono come cani in un parco, io e lei, una danza, voglio che balli con me.

“Prepara questo cazzo di succo e dammelo.” Sibilo irritato.

“Lascia perdere…” cantilena Corinzio, e versa il liquido rosato in un bicchiere alto, ci mette un ombrellino, una cannuccia.

“Vuoi litigare?”

“Fa come ti pare.”

“Mi hai battuto di un secondo, fratello.” Dice Bretella ma non regge il mio sguardo.

Prendo il bicchiere pieno di acqua rossiccia, levo l’ombrellino e la cannuccia, che schizzano sul bancone. Corinzio fa una smorfia scocciata, ma io ho in testa solo la melodia del bandoneon. Faccio un passo, poi un altro, e mi avvicino al suo tavolo. Niente cerimonie, niente occhiate di verifica, mi avvicino e mi fermo, passo e stop, adesso tocca a lei.

Alza lo sguardo dal bicchiere vuoto, tiene gli occhi socchiusi  e dondola un po’ la testa. Forse è l’alcool, forse la musica, forse quel qualcosa che noi uomini non possiamo capire, ma ha gli occhi lucidi: il ghiaccio del suo sguardo che si va sciogliendo.

“Servizio al tavolo.” Dico.

Lei non sorride, sbatte le palpebre, mi guarda da sotto in su. Passo e stop.

“Posso?” chiedo mentre mi sto già sedendo. Le porgo il bicchiere, lei lo prende con quelle mani da bambola e lo fa girare tra i palmi. Occhi negli occhi, passo laterale. La musica ci circonda come la tenda di un’alcova di lusso, siamo soli.

“Sei sicuro?” mi fa. “Se mio marito ti trova qui sei morto.”

La sua voce mi scivola addosso, mi gira attorno, vibra. E’ bassa, un terremoto, eppure femminile, più che sensuale, un ‘passo voleo’.

“Se tuo marito poteva trovarti, non saresti qui. Sbaglio?”

Sorride, per me è come uno schiaffo in piena faccia. Piega l’angolo rosso delle sue labbra all’insù e sfiora il tavolo con lo sguardo, gira l’indice minuto sul bordo del bicchiere.

“Non hai tutti i torti.” Dice.

“Hai dei gusti strani.”

“Questo?” mi mostra il bicchiere. “E’ melograno. Fa bene.”

“Ripeto. Hai dei gusti strani.”

“Può darsi. Molto di me è strano. Tu? Sei attratto dalle tipe strane e misteriose?”

“Sono fatto così.” Muovo le spalle, un gesto di indifferenza, poi mi avvicino impercettibilmente. “E più sono pericolose più mi piacciono.”

“Finirai con l’adorarmi allora.” Mi fissa da dietro il bicchiere. I suoi occhi turchese paiono accendersi, le luci violette del bar li fanno risaltare, è come guardare due soli azzurri che tramontano in un mare rosato.
Rido. Non solo è bella da togliere il fiato ma è anche sagace, indecifrabile, una del genere ti trascina all’inferno e tu la ringrazi pure. Ma so come si balla, nel tango è l’uomo che porta, quindi è questo che vuole. Facciamo una ‘morbida’, giriamo su noi stessi, ma sono io a deciderlo.

“Ne devi aver bevuto parecchio allora…”

Mi guarda di sottecchi, poi capisce. “Sei un adulatore, mi stancano presto gli adulatori.”

Nella danza lei scivola via da me, uno, due, tre passi, si ferma, mi guarda.

“E’ normale adorare una regina.” Rilancio.

Vuole giocare, nessun problema, mi appoggio allo schienale, guardo altrove, faccio cadere la domanda dall’alto, una moneta a un barbone.

“Come ti chiami?”

Nella mia immaginazione, mentre balliamo, la musica impenna e lei volta la testa di scatto, mi trafigge con gli occhi e la rigidezza caustica delle sue labbra che promettono e puniscono.

“Se te lo dicessi non mi crederesti.”

Appoggio un gomito sul tavolo, il mento sulla mano. “Visto che sono condannato a morte, almeno, dovrei sapere per mano di chi.”

Lei segue il mio passo, piroetta lentamente. Solleva il bicchiere, sorseggia; una minuscola goccia si trattiene brillante, poi si spande sulla labbra setose lucidandole. Posa il bicchiere, avvicina il volto al mio, accende una sigaretta sottile. Si prende il suo tempo e poi… spinta e trattenuta.

“Potrei dirti un nome qualsiasi, a te cosa importa?”

“Credi che sia qui solo a rimediare una sveltina?” protendo il mento, offeso. No, non ero lì per una sveltina, e nemmeno per rimediare un numero di telefono da usare quando mi sento troppo solo.

“Non ti piacerebbe?” si pizzica le labbra con il pollice e l’indice mentre la sigaretta accende di rosso le sue pupille, è un cerbero in vestito da sera.

“E’ una domanda a trabocchetto, e anche piuttosto volgare. Non ho intenzione di rispondere.”

Vedo di nuovo quel movimento leggero delle sue labbra, quel sorriso stupito di se stesso e rimango zitto.

“Quanti anni mi dai?” lo chiede come se,  nuda a letto, dicesse: “E’ stato bellissimo…”

“Non ne avresti mai troppi.” Rispondo. 

Il tango entra nel vivo, passi ravvicinati, veloci e precisi al centro della sala. “Smettila di giocare, lo so che fra poco te ne andrai e non ti rivedrò più. Non ti ho chiesto molto, puoi inventare una bugia, farmi sognare.”

Lei avvicina l’indice e il medio della mano destra, mi sfiora il volto con i polpastrelli, sento il calore della sigaretta.

“Il mio Adone.” Sussurra, e io sento che qualcuno mi ha sfilato la sedia da sotto il sedere, il pavimento da sotto la sedia, la Terra dalla sua orbita. Le afferro il polso per non cadere, lei geme appena di stupore ma non ritrae la mano, solo un gesto leggero, un ‘potrei ma non voglio’.

“Sei uno che non molla.” Le brilla lo sguardo. “Non ti serve il mio nome, stai sprecando il tuo tempo.”

Nella risacca della musica lei volteggia leggera, si allontana, si lascia guardare. Dovrei abbandonare la caccia, scordarmi di lei, rinunciare a ciò che non posso avere ma non ci riesco. Le tengo stretto il polso, con forza ma non troppo, le passo l’altra mano dietro lo chignon, scivolo sul collo sottile, la tiro a me.

Passo e stop, a te la mossa.

Le pupille algide vibrano di stupore e desiderio, socchiude le labbra rosse, vedo i denti biancheggiare come luce in fondo a un tunnel, vedo la sua lingua muoversi e poi lei si ferma. Il mio cuore scoppia, si arresta nel petto, sospeso, immobile, mi toglie il fiato. E lei sorride. Un sorriso amareggiato: ‘vorrei ma non posso’.

“Di cosa hai paura?” le chiedo.

“Non voglio portarti con me.”

“Lasciami scegliere.”

“Non potresti, non ti rendi conto, non c’è via d’uscita.” Dice, ed è seria, maledettamente seria. Poi si muove appena, allento la presa, scivola via come fumo e torna a fissare il suo bicchiere. Sorseggia altro succo, stavolta più a lungo come una medicina.

“Una ragazza giovane e ingenua,” inizia senza guardarmi. “viveva sulle sponde di un fiume, in una piccola casa, con sua madre. Non ha mai conosciuto suo padre ma era uno potente, un pezzo grosso. La ragazza aveva la testa piena di sogni, non vedeva l’ora di lasciare quella specie di fattoria che era la casa di sua madre per vedere il mondo, vedere cosa sarebbe successo. La povera mamma le diceva sempre di stare attenta, perché si pagano le conseguenze di quello che si fa. Ma la ragazza non ascoltava, non capiva, non si rendeva conto di ciò che era davvero fuori dal mondo. Si appoggia a un amico di suo padre, per lo meno il tizio si era presentato così. Un uomo di esperienza, paterno, anche affascinante a modo suo, capace di gesti di grande gentilezza ma anche di scatti d’ira improvvisi. La ragazza non poteva che rimanerne affascinata. Lo seguì nel suo regno, per così dire, senza rendersi conto di chi fosse. All’inizio erano feste, regali a sorpresa, servitori in adorazione, ma pian piano la ragazza iniziò a farsi delle domande, e scoprì la verità…”

Butta giù il resto del succo con un gesto troppo rapido, si macchia il vestito nero, appoggia il bicchiere con forza sul tavolo, tintinnio di vetro. Fa per alzarsi ma io,  con delicatezza, tolgo la cicca ormai spenta dalle sue dita, le stringo le mani tra le mie, le faccio sentire la mia presenza. Il tango è quasi finito e lei non osa i passi finali. Deve andarsene ma io non voglio, voglio che balli ancora con me.

“C’è sempre un modo per venirne fuori.” Le dico a bassa voce. Lei scuote la testa con intensità, con la forza del condannato a morte e continua a parlare: “Prima che se ne renda conto è imprigionata. Pilucca semi di melograno dal mondo dei morti, e ormai appartiene agli inferi. Può uscirne solo per poco tempo, una piccola fuga, una farsa, tollerata una volta all’anno per andare a trovare sua madre. Ma deve rientrare al momento giusto oppure…”

“Oppure?” faccio io. ”E’ solo un uomo, un vigliacco che ti tiene a sé con la violenza. Puoi andartene quando vuoi, puoi farti proteggere.” Parlo a vanvera, mi sento un cretino.

Lei ha un moto di compassione per me, vera compassione. Non replica, ma dal modo in cui mi guarda capisco che la situazione non è così semplice, che non so niente, che sono un bambino che fa il bullo con i grandi.

“Una volta intrapresa la discesa non si può tornare indietro.” Dice. “Lui la desidera, la sfoggia come un trofeo, e lei è costretta a sottomettersi: una volta entrati nel regno degli inferi non si può tornare indietro.”

Le spingo il mento con la mano, la costringo a guardarmi negli occhi.

“Vieni via con me.“ Le ordino.

Lei fa un cenno di diniego con la testa e parla con un’indulgenza materna che mi fa incazzare: “Non è possibile. Il mio destino è segnato, ed è eterno. Non lo puoi capire, ne va del mondo.”

Io continuo a tenerle il volto verso di me, le guardo le labbra, le faccio capire che la desidero.

“Non sarà di certo un vecchio ricco e annoiato a tenermi lontano da te.“ Sussurro tagliente.

In quel momento le squilla il cellulare. Lei si ritrae, apre la borsetta, estrae un cellulare con la cautela di chi maneggia un’arma carica, e se lo porta all’orecchio con l’espressione di chi sta per tirare il grilletto.

“Ciao mamma.” Un rintocco funebre. “Sì, sto per partire. No, non ho bevuto. Sì sto bene, sì anche io ti voglio bene. Non mi farà niente non ti preoccupare.”

Chiude gli occhi, respira forte, un bisbiglio confuso dall’apparecchio.

“Addio mamma.”

Si alza piano, mi carezza la guancia, sento il raspare delle sue unghie sulla mia barba. Faccio per trattenerla, per alzarmi a mia volta, ma qualcosa mi ferma. E’ il suo sguardo forse? Il contrarsi perentorio della sua mascella? Io, maschio adulto e vaccinato, poco di buono, armato e pericoloso, rimango seduto come un poppante, con l’aria colpevole, inchiodato dallo sguardo imbronciato della maestra.

 Prima che possa fare qualsiasi cosa lei è alla porta. Nessuno la fissa, nessuno la segue con lo sguardo, come se non fosse mai esistita. La porta di legno si apre. Sotto la luce azzurrognola del lampione di fronte scorgo la sagoma di una lunga auto nera, lucida, costosa, che si ferma dinanzi al bar. Ne esce un gorilla tutto muscoli e cravatta, le apre la portiera, il nero la ingoia.

Il tango è finito, me ne accorgo solo in quel momento, gli ultimi passi incespicati, da ubriachi, l’intesa scomparsa. Con il cuore in gola voglio seguirla, rovescio un tavolo, sento le voci dei clienti, gli insulti. Poi Bretella mi afferra per un braccio, mi si pianta davanti e mi spinge verso il bacone.

“Lascia perdere vecchio mio, non hai visto che razza di macchina è venuta a prenderla? Non è roba per te, anche se vuoi giocare a fare l’eroe. Vieni siediti.”

Mi lascio convincere. Ha ragione. E’ proprietà di gente troppo potente, troppo ricca, troppo avida per poter farla franca e poi? Un amore nato in un bar, da uno sguardo? Mi sono lasciato abbindolare dalla magia del tango. Corinzio mi porta un’altra lager, poi un’altra. Rimaniamo a bere per una mezz’ora buona, poi Bretella fa la fatidica domanda e io, forse per confinare il mio dolore nel ricordo, gli racconto tutto, parola per parola.

Bretella e Corinzio mi guardano. Il mio compare mi da una pacca sulle spalle, comprensivo. Un’altra storia triste da buttare sul mucchio, da raccontare a qualche teppistello alticcio nelle serate in cui fa troppo freddo.

“Che ci vuoi fare? Le donne sono fatte così, ti pigliano con la compassione, magari perché hanno voglia di una botta, e poi ti gettano via e tornano da quello più ricco che tanto disprezzano.”

Quante verità escono dalla bocca di Bretella. Mi piego ancora di più sul bancone, ho anche finito le sigarette, ma non mi va di chiederle, non ho voglia di sentire la mia voce.

Corinzio sghignazza. Lo guardo male, lo fisso, ma lui continua a ridacchiare.

“Oh scusa.” Mi fa.

“Che diavolo hai da ridere?” interviene Bretella in mia difesa, e Corinzio fa spallucce.

“Persefone.” Dice, come se fosse tutto chiaro.

“Chi?” chiede Bretella strizzando gli occhietti da maiale, e io, invece, serro la mascella e stringo i pugni. “Maledetta puttana.” Sibilo tra i denti. Vorrei urlare qualcosa di sprezzante, qualcosa di offensivo verso tutto il genere femminile, vorrei arrabbiarmi e rassegnarmi, ma non mi viene in mente niente. Mi ha raccontato una storia, la storia che volevo sentire, e io ci sono cascato con tutte le scarpe.

Bretella si accoda agli insulti, pur non avendo capito, quando la porta del bar si spalanca e entra il Moro. Si Accosta al bancone bestemmiando, si frega le mani come se dovesse levigarle.

“Ma che gli è preso al tempo?! Fa un freddo carogna! Corinzio scaldami!!!”

Butto per terra il bicchiere perché mi spingo via dallo sgabello con entrambe le braccia, mi scapicollo verso la porta, la spalanco.  Sono nel vicolo, mi stringo nelle braccia: sono vestito troppo leggero. Tira un ventaccio gelido e il cielo è grigio e nero. Faccio qualche altro passo in avanti, rallento, mi fermo. Il vento mi da una spinta da dietro, poi di lato, la mia camicia sventola. Fisso il palazzo di fronte.

Un fiocco di neve mi atterra gelido sulle labbra, rabbrividisco, guardo in alto.

Ne arriva un altro e un altro. Lenti, vorticanti.

La primavera è morta.