– Tu sei buono con me. – Bisbiglia, e mi sfiora la guancia con le labbra.
Abbasso gli occhi, sono sporco, la barba dura di due giorni. Il furgone è ancora acceso, lei in punta di piedi all’angolo del bar, si aggrappa al vetro aperto tra le case basse col recinto di alluminio e le macchine parcheggiate. Fisso il cruscotto, non sono bravo con le donne. Ride piano, la sua bocca è una pennellata di colore, una virgola pallida sul viso lentigginoso. Ha indosso un giubbetto rosso che le sta stretto, mi saluta con la mano.
Tutte uguali, te lo dico io, tutte uguali.
Era venerdì sera, tardi, quando le ho parlato la prima volta.
La strada brilla d’argento lucido e fiancheggia dritta l’acqua nera del lago. Sto tornando da Ascoli, Rachele mi ha mandato a collaudare le bombole al negozio. Mi piace scendere da Monastero al paese perché è come volare sopra l’acqua, mentre le montagne giocano a nascondersi dietro gli alberi. Il lago è una cattedrale illuminata a festa, è piena delle luci del paese, mi fa venire in mente belle parole, parole che però spariscono subito. Io non sono bravo a dire le cose. La diga è un muro curvo di cemento, le fondamenta della cattedrale, e prima mi faceva paura, ma adesso è tutto diverso, adesso mi piace ma mi fa piangere. Vedo una Lancia blu parcheggiata davanti all’imbocco della diga, sotto un lampione smorto, lungo la ringhiera gialla. Rallento. Lei fuma appoggiata alla balaustra, il rosso della sigaretta si accende e spegne come un faro e si riflette nei suoi occhi fatti dello stesso grigio del cielo. Tira vento freddo dall’acqua, giù in basso, e lei è in pantaloncini e maglietta rosa. Sorrido, mi gratto la testa, sono nervoso.
– Ciao, tutto bene? – Chiedo.
– Sì. – La sua voce parla lentamente con i suoni strani di chi non è di queste parti. – Non mi serve niente, grazie.
– Sono Francesco, mi hai visto al bar.
Si gira e strizza gli occhi perché ho i fari accesi, però la pennellata delle sue labbra cambia forma. Scendo.
– Non ti avevo riconosciuto. – Fa lei.
– Hai chiuso il bar? Non hai freddo? – Non so cosa dire, continuo a grattarmi la testa.
Guarda il lago, anche i suoi occhi sono fatti d’acqua, non risponde. Mi appoggio vicino a lei, ho la gola chiusa come quando Rachele mi fa mettere per forza la cravatta. Sopra di noi la luna è sbilenca, un pallone sgonfio.
– E’ bella, vero? – Balbetto.
– La luna?
– No, l’acqua. Non sembra una cattedrale?
– Mi fa paura l’acqua.
– Non sai nuotare?
– No, ho paura di affogare, però è bellissima. Perché ridi? – Mi chiede e le sopracciglia sottili fanno la ruga in mezzo.
– No, niente, è che non sai dire le doppie.
– Scusa.
– No, e di che? E’ buffo, mi piace, non … – E mi giro verso le luci arancio dei lampioni di San Lorenzo, lontano, sulla la punta della cattedrale. Lei spegne la sigaretta sulla balaustra, il vento le gonfia la maglietta leggera, ha la pelle d’oca.
– Ora devo andare. – Dice dopo un po’, e io faccio di sì con la testa.
Quella notte non ho dormito.
Sai quante volte l’ho vista in giro di notte? Eh, sono tutte uguali, tanto, tutte uguali. Vai a sapere chi è la povera cornuta.
Il bar è una casetta rosa a due piani con una veranda di legno scuro, proprio tra le prime case di San Lorenzo, il paese basso, al bivio tra il ponte e la chiesa. Lei, dietro al bancone, è veloce e gentile, però ride poco. La gente dice che è perché viene dal freddo, dall’est, ma io non ci credo perché con me sorride, sorride quasi sempre. Poi è arrivata l’estate, e i turisti con le monovolume cariche di tende e bambini, e le moto rumorose cariche come muli.
Quel pomeriggio c’era parecchia gente. Lei tira giù le tende della veranda perché il sole picchia forte e il cielo è blu scuro e levigato. I turisti si aggrappano ai tavoli come ai gommoni del rafting e afferrano panini, caffè, e affettati misti. Lei lavora in silenzio, gli occhi fatti di grigio bassi sul lavandino, le mani sottili che riempiono bicchieri e tagliano pane. Vorrei parlarle ma c’è sempre qualcuno che arriva prima di me, che si sporge sul bancone per fare un battuta, o che le fissa la scollatura mostrando i bicipiti sotto la maglietta tecnica. Io le guardo le labbra pennellate, le muove appena, a volte in su, a volte in giù. Poi la Smart di Rachele viene su dal ponte e mi ricordo che devo portare via l’attrezzatura da sub, esco, apro lo sportello del furgone, parto. La Smart si ferma al bar.
I maschi si fanno tirare dalle sottane, non capiscono più niente, scusa se lo dico, Francé, ma siete proprio stupidi.
I giorni sono lunghi d’estate e i mesi corrono piano.
– Da dove vieni? – Le chiedo una mattina che non c’è nessuno.
– Lyubim.
– E dov’è?
– Lontano.
– Perché sei venuta qui?
Alza le spalle.
– E’ che ti ammiro.
– Per cosa?
– Sei partita a cercare quello che vuoi.
Alza ancora le spalle. – Tu lo sai quello che vuoi?
Muovo la testa su e giù, perché ho un pensiero e glielo vorrei dire ma poi una signora entra con due bambini per mano in cerca di un succo e una Coca cola.
Non me l’ha mai detto perché.
– Fumi? – Si appoggia alla veranda.
– No.
– Io dovrei smettere. – Dice, e sbaglia le doppie. – Che ho detto, stavolta? – Sbuffa.
– Smettere, si dice con due ti. – Le rispondo e lei fa il broncio e l’aria si fa densa che non vuole entrarmi in bocca per l’emozione.
– Non ti va mai bene niente. Io faccio quello che mi pare! – E finge di tirare tutta la sigaretta in un colpo solo. Voglio dirle che è bella mentre sta con le braccia conserte a fumare, ma mentre cerco le parole, lei butta la sigaretta sulla strada e rientra.
La Smart di Rachele, piano piano, attraversa il ponte, curva, rallenta davanti al bar, riparte.
La notte ho pensato a lei, a come le si erano spenti gli occhi.
Sempre che qualcuno non le abbia fatto la pelle! Ma se lo merita, ah, se lo merita!
Quella mattina sono partito che era ancora notte, niente luna sulla strada e nemmeno nel lago, le stelle stavano nel cielo fredde come lampadine dell’Ikea. Aspetto davanti al negozio da sub, consegno i giubbetti da revisionare. Verso mezzogiorno chiamo Rachele per dirle che è tutto a posto, ma sono strano, voglio tornare subito e guido arrabbiato con le gomme del furgone che graffiano l’asfalto. Imboccata la statale penso a lei, immagino di trovarla ancora alla balaustra a guardare la cattedrale nera che è il lago. Immagino di parlarle senza il nodo in gola.
Entro al bar, la padrona sputa veleno dal bancone.
– Le ho dato un lavoro onesto, la pago pure bene, e quella sparisce così, manco una telefonata! Ma io lo sapevo, eh, l’avevo detto, vai a fidarti! Eh, io non sono razzista, eh, però si sa quello che succede con queste russe.
La padrona si piega in avanti, appoggia le mani sulle cromature, la collana di perle dondola e fa un suono di sassi sull’acqua. – Secondo me è scappata via, l’ha fatta grossa e è scappata, te lo dico io!
– Scappata via? – Alzo la voce, tutti si girano, faccio un passo indietro e inciampo nella tenda di perline. – Che vuol dire?
La padrona del bar alza gli occhi al cielo, mi fa il ghigno idiota che si fa ai bambini. – Eh, Francé, ci sono persone strane a questo mondo, come te lo spiego?
Io stringo i pugni, i denti si chiudono così forte che non riesco a risponderle, e lei continua.
– Tu sei grande e grosso ma sei un’anima innocente. Altri, invece, sono piccoli e carini e in realtà sono delle vipere.
Il resto del bar dice sì, qualcuno mormora puttana, credo, o parole così, ma io esco di corsa, mi rimane un filo della tenda in mano, me ne accorgo nel furgone. Scappata via? Perché? Quando? Ho messo la mano sulla guancia, lì dove si erano posate le sue labbra. Io sono grande e grosso, è vero, e ho la barba, e i peli sulle braccia e le gambe, ma mi è venuto freddo, un gelo che parte dalla punta delle dita fino alle spalle, al collo, mi congela l’anima.
– Oh? Ci sei? – Rachele esce dal baracchino dei sub, mi viene incontro.
– Ciao. Torno a casa mia. – Le rispondo. Lei abbassa gli occhi, schiocca le labbra. – Che c’è?
– Ti sei bloccato, sono dieci minuti che stai qui davanti con il furgone acceso, Francé.
– Scusa.
– Stai bene?
– Sì.
– Vuoi che dica a Marco di accompagnarti? Torna fra poco.
– No, sto bene.
– Stai prendendo le medicine? – Chiede e strizza gli occhi.
– Sì. – Mento. Non lo so se le prendo, non me lo ricordo.
– Hm.
– E’ la verità!
– Ok, ok. – Soffia. – Senti sei stato qui l’altra sera?
– No.
– Sicuro?
– Sicuro! – Lei mi guarda storto. – Me lo ricorderei!
– Ho trovato la porta aperta, le bombole spostate, e mancano gli agganci di sicurezza e una zavorra!
– E allora?
– Lo sai che non devi fare immersioni da solo.
Sempre che qualcuno non le abbia fatto la pelle!
La casa dei nostri genitori è mezza terremotata ma Rachele dice che non crolla e ci posso stare, e io non voglio andare via. Parcheggio di fianco al negozio di barbiere chiuso, sopra dei calcinacci e davanti a una rete. Salgo le scale strette, entro in cucina, c’è la pentola col minestrone avanzato, la afferro per il manico, la sbatto sul tavolo, schizza tutto, la piego con le mani, la uso come un pugnale sul legno e immagino sia lei.
– Perché te ne sei andata così? Senza dirmi niente? Io ti faccio ridere!
Poi sento il legno che scricchiola spezzato nel mezzo, la tovaglia con le ciliegie strappata, e finalmente vedo con i miei occhi, non con la rabbia. Lascio andare la pentola che fa un rumore di campana rotta.
– Scusami, – dico al tavolo che è lei nella mia testa, – non ti farei mai del male, mai!
Il solletico del bacio mi taglia la faccia come un rasoio, vado a farmi la doccia, devo levarmi la rabbia di dosso.
Chissà chi è la povera cornuta …
Una settimana dopo, tra il suono delle campane della domenica e il sole che scioglie le nuvole, la sua scomparsa già non è più sulla bocca di nessuno. Lei non c’è più e l’indifferenza di tutti le si è chiusa sopra come l’acqua: tanti spruzzi e poi più niente. Da quel momento tutto è diventato niente: la luna è solo la luna, le curve solo curve, la diga solo un muro. Però la notte non dormo: non volevo nulla da lei, mi sarebbe bastato un ciao, un arrivederci, e invece se n’è andata così.
Ho rotto la lampada del comodino.
Ricordo che c’era ancora la neve quando il fugone si è fermato sulla gramigna umida, vicino all’area picnic e i tavoli di legno. Strattona come un somaro e si pianta, a folle riesco a metterlo da parte. Scendo e mi affaccio a guardare dallo strapiombo. Sono le sei di sera, le montagne cullano l’acqua come un neonato, c’è silenzio. Le panchine e i giochi per i bambini sono da soli, mi fanno tristezza. (Non mi facevano mai giocare al parco. La mia testa è complicata, lo devi capire, ho fatto cose brutte da ragazzo, cose che non racconto mai perché mi graffiano dentro, sotto l’osso del cranio, e non mi fanno dormire.)
Mi piego sul sedile per prendere il giubbetto arancione e in quel momento una macchina arriva, alzo la testa. La Lancia blu gira subito a destra infilandosi nella stradina che porta su alla chiesa di Santa Croce. Attraverso di corsa. Voglio dirle delle bandierine colorate, delle luci e della porchetta quando ci fanno la festa. Chissà se le piace la porchetta. Rido mentre penso alla sua faccia, al modo in cui piega la testa, a come si mette i capelli dietro le orecchie, e poi chissà come dice ‘porchetta’.
Ma alla chiesa non ci sono mai arrivato.
Sento sbattere uno sportello tra le frasche umide e mi affaccio a vedere, c’è un muro di pietre grigie e tonde con sopra dei coppi ammuffiti, un cancello di ferro e i cipressi con la punta storta come vecchi cappelli da strega. Lei indossa un paio di jeans, un giubbetto rosso slacciato, e sta in punta di piedi con le braccia al collo di uno coi pantaloni corti e una maglietta blu. Non l’ho visto bene, sono andato via subito.
(La vedi questa ammaccatura allo sportello? L’ho fatta quel giorno con la testa e sono tornato a piedi a San Lorenzo.)
Lo fanno apposta, eh, lo fanno per ricattare i mariti, altrimenti non si spiega! Cosa? Farsi mettere incinta e me lo chiedi anche?
– Mi accompagni all’ospedale?
– Stai male?
– No, tranquillo.
Mi sudano le mani, apro e chiudo la bocca spingendo l’aria fuori. Lei siede vicino a me, il giubbetto rosso chiuso bene, le mani sulla pancia. Intorno a noi le foglie stanno diventando gialle e i suoi occhi fatti di cielo d’inverno guardano le ginocchia.
– Dove?
– A Macerata.
– Quando?
– Domani mattina.
– Va bene, ti passo a prendere al bar.
– No. Ci vediamo qui.
– Perché?
– Perché sono stupida.
– Non sei stupida.
– Sì, invece.
– Perché?
– Solo le ragazzine stupide sognano l’abito bianco.
Io scuoto la testa, non capisco.
– Non ti preoccupare, tu sei un tesoro, ti voglio bene.
Anche io ti voglio bene, ma non l’ho detto. Ho stretto i pugni.
(Sai? Sentivo graffiare nella testa in quel momento, ma le sue labbra pallide si sono piegate in un sorriso e tutto si è sciolto. L’ho accompagnata, l’ho aspettata fuori nel parcheggio, l’ho riportata all’area picnic. I suoi occhi di cielo erano complicati, non le ho chiesto niente.)
Abortire? Ma come ti passa per la testa? Non lo fanno mai, altrimenti dove guadagnano?
Sì, sto piangendo. Un uomo grande e grosso non può piangere? Piango perché ho visto una cosa bella, una cosa così bella da essere splendida anche quando non dovrebbe.
Non sai di che parlo, vero? Ti spiego.
Ieri mattina il cervello graffiava forte, non me la sentivo di guidare. Rimango seduto davanti al televisore spento per tutta la mattina, mi tremano le mani, prendo le pillole. I pensieri arrivano all’improvviso, sono scoppi di petardi. Sai quando hai un’idea in testa che non sai spiegare? Scendo le scale, giro intorno casa per calmarmi, imbocco la discesa che porta alla pista ciclabile, cammino. Continuo lungo la pista fino all’area picnic. Forse la sto cercando, non lo so, scendo fino alla spiaggia di sassi, affondo nella ghiaia rosa. L’acqua è azzurra e rossa di foglie, cammino senza pensare fino alla vecchia casa abbandonata e poi lo vedo. Un riflesso verdastro che ondeggia, una cinghia di sicurezza con l’anello fluorescente, quelli che usa Rachele. Entro nell’acqua, lo prendo, vedo i tubi di scarico che dalla casa abbandonata si perdono nel nero. Il cuore mi batte forte, mi gira la testa, la diga mi sovrasta come se volesse cadermi addosso.
Dovevo capire, dovevo essere sicuro.
La stessa notte sono tornato.
Ho aspettato nella casa abbandonata, mi sono cambiato appena ha fatto buio così Rachele non mi avrebbe sgridato. Qui sopra, di giorno, la gente passeggia, va in bicicletta, scatta fotografie e non si rende conto che non possono vederla, che non possono sentirla, ma io sì! Io la sento. Mi aspettavo che l’acqua fosse più calda, ma forse sono solo io che non so più scaldarmi. C’è la luna, come quella volta della sigaretta, ma è più bassa e più sbilenca, e le luci sull’acqua scappano via quando mi immergo.
Nel verde e nell’azzurro denso, il rosso del suo giubbetto brilla illuminato dalla torcia, lei tiene le mani giunte in basso, un gesto pudico, le cinghie intorno ai polsi sono un bouquet, e la pennellata delle sue labbra non è più rosa, è blu e gli occhi gonfi, opachi, fissano la parte più profonda della cattedrale, immobili come se aspettassero un cenno per attraversare la navata centrale. I capelli sono sciolti, sottili, è la prima volta che li vedo così e il boccaglio mi scappa dalle labbra. Ondeggiano lenti, decorati da piccole perle d’acqua che si staccano una dopo l’altra per salire verso la luna. Il suo collo sottile è ornato da una riga scura, come una collana fatta di sangue rappreso. E’ la cosa più bella che abbia mai visto, e anche la più orribile. Muovo piano le braccia, mi avvicino, grosse bolle d’aria rovinano il velo dei suoi capelli.
Le do un bacio sulla guancia. Lei mi sorride.
Esco dall’acqua, mi guardo le mani, cado in ginocchio. Quando è successo? Sono stato io? Magari l’ho convinta con la scusa di un’immersione e poi le ho strappato la maschera dal volto, l’ho tenuta ferma finché non è svenuta, l’ho legata alle vecchie tubature? Quando? E poi? Sono partito col furgone per far smettere il cervello di graffiare?
(A lei non piace l’acqua. Lei non sa nuotare.)
Mi strappo di dosso la muta, mi arrampico sulla scarpata, non seguo i sentieri, mi aggrappo all’erba. Corro sulla strada asfaltata tra i muretti di pietra e gli alberi, corro fino al baracchino di Rachele, è chiuso, non c’è nemmeno la Smart. Attraverso il ponte, le macchine suonano ma non mi importa, arrivo alla veranda, la padrona ha una scollatura più vistosa del solito, serve i caffè, e ride e schiamazza sotto le lampadine accese. Mi guardo le mani: possibile?
Che sono venuto a fare qui? Lei non c’è. E nemmeno la Smart.
Certo che non c’è. Aspetta il suo sposo nella cattedrale, aspetta chi deve occuparsi del bambino in arrivo. Vorrei dirle che è bella anche con la pancia che cerca di nascondere col giubbetto rosso, e che non è stupida, non lo è. Se lo merita il vestito bianco!
Sono venuto subito a casa vostra, gocciolavo sull’ingresso, ho suonato. Rachele non c’era, nemmeno tu c’eri, e nemmeno la Smart.
Chissà chi è la povera cornuta …
Davanti agli occhi e nelle orecchie tornano i giorni passati.
– Ah,- fa Rachele mentre accatasta le casse con le bottiglie d’acqua, – dovrai fare un po’ di giri con il vecchio furgone.
– Perché?
– Marco è andato a sbattere l’altro giorno! Gli dico sempre di stare attento con la neve ma lui non può proprio farne a meno, è un pilota di rally, lui! – Sbuffa e alza gli occhi verso il tetto di legno del baracchino. – Lui e le maledette partite di calcetto che non si possono rimandare! Dovrebbe darmi una mano con le immersioni ma si ricorda di essere un istruttore di sub solo quando gli fa comodo!
– Ma il vecchio furgone è un rottame! Non posso andare con la tua macchina?
– Eh, e Marco poi con che va?
– Compra un’altra macchina!
– Ce li dai tu i soldi?
Con un figlio di mezzo sai come va, no? Qualcuno dovrebbe dargli una lezione, allora sì che le cose andrebbero a posto.
Ho aspettato dietro ai cassoni della corrente elettrica, da lì si vede bene la strada e l’ingresso di casa vostra. I fari della Smart fanno la curva del bar ma stavolta non rallentano, non la spiano, non le fanno paura. Dritti vanno sul ponte, poi la salita, e si fermano davanti al muro bianco del condominio. I fari sono indifferenti e anche tu scendi allegro, come se niente fosse, con la maglietta blu della tua squadra, i pantaloncini gialli e il borsone. Appena le luci dell’ingresso si spengono io attraverso la strada, metto le mani a coppa per vedere dai finestrini, sento il cuore che batte nelle orecchie.
L’ho visto bene: un pezzo di anello verde fluorescente sul tappetino. Divento calmo, il cervello non graffia più, le mie mani sono ferme, fermissime.
– Pronto? – Chiamo Rachele da dietro i cassoni. Un rettangolo di luce si accende al primo piano.
– Francé? Che succede?
– Vieni a casa, vieni, presto.
– Eh? Mi vuoi spiegare?
– Vieni.
– E’ tardi!
– Vieni, subito, è importante.
– E va bene, Marco è appena tornato, dammi un minuto e veniamo su.
– No! Solo tu.
– Perché?
– Vieni solo tu!
Rachele sbuffa, al cellulare il suo fiato è un turbine. – Arrivo. Tu stai lì! – Mi ordina. La vedo uscire di corsa dal portone, accendere la macchina e partire, non ho molto tempo, giusto qualche minuto. Spengo il cellulare.
Quando mi hai visto sulla porta di casa hai capito subito, ma io sono grande e grosso, i nodi li so fare, e sono bravo nell’acqua, Rachele mi ha insegnato a nuotare da piccolo. Non sarai un problema per me come non lo è stata lei per te. Non agitarti, è inutile, durerà solo qualche minuto e poi sarai calmo, calmo come lei, e allora slaccerò la zavorra che andrà a fondo. Hai fatto così anche tu, vero? Però io non sono come te, io non ti strangolerò prima, non sono mica un assassino, non sono più violento, prendo le mie medicine, lo sai.
Adesso ascoltami. Quando le sarai accanto non essere nervoso, è dolcissima, capirà. Basta che le chiedi scusa, lei farà quel suo sorriso leggero. La cerimonia sarà bellissima, la cattedrale stanotte è meravigliosa.
Ecco, ci siamo.
La devi vedere, è bellissima col velo da sposa.
Fine.