(Il racconto “Skinny” si è classificato secondo al Mystfest 2020.)

Ho ancora la fotografia davanti agli occhi.

Il divano a sinistra, logoro, di finta pelle scura, eppure ancora gonfio. Un tappeto persiano bucato dalle tarme e dalle cicche di sigaretta. Due sedie IKEA di abete grezzo a destra, una è zoppa, e dietro una  finestra con una griglia di ferro sporca di smog e guano di piccione. Il pavimento è di parquet graffiato, le pareti macchiate di umidità. Sparse ovunque cartine di sigaretta bruciacchiate, siringhe, cucchiaini storti, strisce di stoffa. E lei. La testa piegata all’indietro, appoggiata al divano, le gambe incrociate, la posizione del Loto ma fatta male. Le braccia distese, la sinistra tra le cosce, la destra con il dorso della mano sul tappeto come se aspettasse che qualcuno le passi qualcosa. Non riesco a vederle il volto, i capelli castani e sporchi le ricadono sul viso. Di quel momento ho ancora tutte le sensazioni che mi ballano nell’anima. Il suono del campanello quando la polizia è venuta a suonare, la voce greve dell’ufficiale, le domande di rito.

“Fausto Melis?”

“Sì, sono io.”

“Venga con noi, per favore.”

“Che succede?”

“Si tratta di sua sorella Marzia.”

“Che ha combinato stavolta?”

Una telefonata anonima, mi hanno detto, e poi l’auto della polizia in mezzo al traffico, gli uffici che sapevano di deodorante alla menta, il viso perplesso del commissario, e la foto che ho tanto insistito per vedere. Inutile dire che non volevo crederci, che era tutto assurdo. Sono arrivato perfino a sperare si trattasse di uno sbaglio, di uno scambio di persona. Come se la morte della sorella di qualcun altro potesse valere di meno. Dio, perdonami, sono solo un uomo. Poi l’obitorio. Marzia aveva il volto grigio e scheletrico, lo sapevo già, era una tossica, la cosa non avrebbe dovuto cogliermi di sorpresa e invece mi ha colpito come un pugno alla gola. L’ho riconosciuta sul lettino d’acciaio, ho firmato dei fogli, hanno archiviato la faccenda. Mi chiedono se soffrisse di depressione, se avesse lasciato detto qualcosa. Si droga da quando aveva ventun’anni! Cazzo sì, era depressa, era complicata, era una spina nel fianco! Hanno stampato overdose su un modulo e fine. Overdose. Punto. Come se questo basti a dire tutto, a esaurire l’argomento, ma io non ho chiuso occhio quella notte. Suicidio? Sarà deformazione professionale ma non lo volevo accettare. Overdose? Dopo quindici anni? Come? Mi sembrava un errore stupido. Lo so, più ti droghi più vuoi drogarti. Io bevevo, e si può morire pure di quello.

Sono tornato dalla polizia il giorno dopo, ho insistito e pregato, sia il commissario che il Padreterno, solo per sbattere il muso contro un muro di gomma. Il protocollo non prevedeva nemmeno l’autopsia.

Alla polizia, al mondo, non gliene frega niente di quelli come Marzia. Adesso, però, giustizia è fatta. Come è successo? Le vie del Signore sono proprio infinite.

Ero appena tornato in parrocchia, Padre Aroldo non c’era. Mi piace stare in chiesa da solo seduto verso gli ultimi banchi. D’estate, quando si avvicina la sera, la luce dalle finestre colorate illumina tutto di rosso e blu e rimango a sentirne il calore sulla pelle, ne avevo proprio bisogno. A un certo punto la porta laterale cigola. Una donna dai capelli corti biondo platino, con indosso un chiodo troppo largo e una maglietta dei Ramones, entra e fa due passi avanti per poi fissare la croce di vetro piombato sopra l’altare. Dopo un minuto buono, finalmente, si accorge di me e mi viene incontro. Cammina dondolando a passi irregolari, gli anfibi slacciati fischiano sul pavimento di marmo. Sto per chiederle se si sente bene, se le serve aiuto, ma parla prima lei. La voce è rauca e distante, come se fosse registrata, una bambola col dischetto di vinile dentro.

“Melis?” Si gratta una tempia.

“Sì, sono Padre Fausto. E tu saresti?”

“Skinny.”

“Skinny.“ Ripeto. “Piacere. Ti serve qualcosa?”

“Sono qui per tua sorella.”

“La conoscevi? Che cosa sai? Era tua amica?” La aggredisco, ma lei sbatte le palpebre, rimane fissa, gli occhi neri, vacui, incastonati nel viso floscio come un palloncino sgonfio. Non ha più di quarant’anni, la carnagione olivastra, il naso piccolo e le labbra secche. Sul collo il tatuaggio di un dito medio con il bracciale borchiato.

“Niente.” Dice alla fine. “Non so niente.”

“E allora che vuoi? Chi ti manda?”

“Raul.”

“Raul? Lo spacciatore?” Alzo la voce, la parola spacciatore echeggia per la chiesa quasi i santi la ripetessero e Skinny la segue con gli occhi, abbozza un sorriso.

“Sì, Raul. Lo conosci? Mi ha detto di venire a darti una mano.”

“Cristo Santissimo.” Bestemmio tra i denti, non so che risponderle. Conosco Raul solo di nome, un criminale di periferia, ma sa qualcosa? Mille pensieri si accavallano. È una bravata, una minaccia? A che scopo? La mia mente razionale urla rimproveri: la polizia non ha trovato nulla di strano. Overdose,, niente di più. Ma il mio cuore comincia a battere all’impazzata. Mi appoggio al banco più vicino, ho la gola secca, balbetto qualcosa. Lei mi guarda le labbra intensamente.

“Io capisco le cose.” Risponde a una domanda che non ho fatto.

“E che cosa vorrebbe dire? Se è uno scherzo ti giuro…”

“Non scherzo. Anche tu pensi che sia strano?”

“Sì, lo penso.” Perché le ho risposto così? Perché non l’ho cacciata a pedate dalla chiesa? Perché non le ho messo in mano venti euro e accompagnata alla mensa dei poveri? Non lo so. Ha un ché di magnetico, di autentico e profondo.

“Allora ti aiuterò. Dobbiamo andare a vedere il posto.” E si gira verso la porta come se io le stessi dietro. Poi si accorge che sono rimasto fermo, arrabbiato, confuso e paonazzo.

“Che posto?!” Ringhio.

“Dove è morta.”

“È dall’altra parte della città.”

Guarda in alto a destra. “Hmm. Ci serve una macchina. Tu ce l’hai una macchina?”

“Sì ce l’ho.”

“E la benzina?”

“Pure quella.”

“E allora andiamo, prima che ci tornino i tossici.”

“Da che pulpito! Tu sei completamente fatta!” Le urlo contro mentre mi avvicino.

Lei scuote lentamente la testa da destra a sinistra, poi si dà due colpi sul petto piatto. “Pulita dal 2009, capo.” E fa il saluto scout. Non so perché.

Corsico ore 18:30

Skinny mastica l’ultima patatina floscia, si pulisce col dorso della mano, piega con cura il sacchetto di carta del McDonalds e mette in tasca la busta con la sorpresina. Imboccata via Vigevanese si fa attenta, guarda tutto: i paletti del guardrail, l’acqua marrone del naviglio costellata dalle luci degli sparuti lampioni sulla parallela, i fari delle auto. Io sono troppo nervoso per fare conversazione, una volta raggiunta la casa abbandonata cosa dovremmo cercare? Vorrei urlare, girare la macchina e tornarmene in parrocchia, e invece fermo l’auto sul marciapiede vicino a un muro giallo ocra con un cancello di ferro arrugginito nel mezzo. Mi sudano le mani. Ci sono tutti i segni della periferia: spazzatura, scritte sui muri, l’edera che trabocca dalle sbarre delle balaustre zincate. La casa ci guarda con le sue finestre aperte e buie. Ha il tetto a punta, due piani, il muro rosa scrostato, bordature bianco sporco. Skinny scende, gira intorno alla macchina, si avvicina al cancello. L’ingresso della casa deve essere dall’altro lato, sulla strada danno solo altre quattro finestre. Riesco a immaginare la posizione della stanza della foto, riconosco la finestra anche se la luce comincia a scemare, il cielo si fa turchese. Skinny spinge il cancello colpendolo con le mani, si apre appena poi, di schianto, si spalanca. Io mi guardo intorno, non è la prima volta che mi trovo a seguire una ragazza in case abbandonate. Marzia mi ha fatto davvero penare e, per mesi, sono andato a recuperarla in posti simili. Ma questa volta è diverso. Marzia non c’è più.

Imbocco un breve vialetto pieno di erbacce che tra cespugli e alberi incolti conduce alla porta, ci sono i nastri bianchi e rossi, un foglietto nel cellophane con il timbro della polizia. In mezzo alle frasche vedo un materasso sporco, un comodino. Gli anfibi di Skinny scricchiolano sulla ghiaia, si ferma, si piega per guardare tra i rami e poi raggiunge la porta d’ingresso, un rettangolo di legno graffiato e marchiato dalla vernice spray. Skinny mi viene a prendere, mi tira per mano. La seguo stordito, non voglio rivedere quella foto.  

Entriamo in un salottino. Le finestre a destra sono chiuse, un vetro è rotto, un albero ha cercato di riprendersi lo spazio. Per terra ci sono fili con lampadine attaccate, chissà da dove prendono la corrente. Sedie spaiate, una poltrona, un tavolo. Sulla sinistra, oltre il vano di una porta, c’è la cucina. Vedo i pensili di compensato, uno sportello, un barattolo di alluminio. Skinny scompare dietro lo stipite e io rimango immobile in mezzo alla stanza.

“Che siamo venuti a fare?” Chiedo all’aria.

Lei si affaccia. “Scoprire che è successo.”

“La polizia non ha trovato nulla.” Allargo le braccia a mostrarle il salotto vuoto.

“La polizia non cerca.” E sento lo squittio degli anfibi sui gradini.

“Che cavolo vuol dire?” Le corro dietro. Le scale terminano in un disimpegno scuro dove si affacciano tre porte, due camere da letto e un bagno in fondo. Skinny si sporge a sinistra, una cameretta, un letto col materasso e una rete vuota. Poi va a destra, entra. È quella. Sento il sangue che se ne va dal cervello. Il divano, la finestra, le sedie. Tutto è come l’ho visto, manca solo Marzia, e la sua assenza mi fa bruciare lo stomaco di acido. La luce entra obliqua dalla finestra, le ombre della grata si proiettano sul pavimento di legno che sembra una scacchiera con i pezzi rovesciati da uno scatto d’ira. Skinny sbatte le palpebre, si fissa sui cuscini del divano.

La prendo per un braccio, la faccio voltare. “Allora?”

Sfila il braccio magro dalla mia mano come una cannuccia da un bicchiere. “Non mi piace che mi tocchi.”

“Scusami.”

“Niente. Dove stava?”

“Lì.” Indico il divano.

Skinny fa girare la mano davanti alla faccia.

“Che altro vuoi che ti dica?”

“La foto. Cosa c’era?”

“Chi ti ha detto della foto?!”

“Me l’ha detto Raul.”

“E lui come fa a saperlo?”

“Ha gente nella polizia.” Fa spallucce.

Rimango zitto, non ci voleva molto ad arrivarci, in effetti. Sento la gola chiusa, ogni dettaglio che mi torna alla mente mi fa stare male, mi fa sentire in colpa.

“Lei è seduta sul tappeto. Le gambe incrociate, i capelli sulla faccia, la schiena sul divano. Ha una mano a terra, una tra le gambe. Il resto è come lo vedi.”

Skinny ascolta con la bocca semiaperta, mi fissa. “Ancora.” Dice.

“Ancora cosa?”

“Ripeti.”

“Te l’ho appena detto!”

“Per questo ho detto: ripeti.”

Sbuffo. “La foto è presa da qui.” Dico e mi metto all’ingresso. “Lei è con la schiena sul secondo cuscino, seduta a terra, le gambe incrociate, la mano destra è col dorso a terra. Ha i capelli sulla faccia…”

Skinny apre la mano per dirmi di rallentare, inciampa in una sedia, si mette seduta a terra con la schiena al divano. “Che cazzo…” dico tra me e me. Lei mi fa cenno di proseguire.

“No.” Sbotto. “Basta. Che stai combinando? Sono stanco di giocare, lo vuoi capire? Mi fa male stare qui.”

Nervosamente sventola la mano.

“Ha la testa sul cuscino, i capelli sulla faccia, la mano destra è per terra col dorso all’insù.”

Lei si siede sul divano, si lascia scivolare a terra, sbatte le natiche sul legno. Risale sul divano, si lascia scivolare giù, sbatte sul legno, dà un colpo di nuca sul cuscino. Scuote la testa pensierosa.

“Così?” Mi guarda.

“Sei completamente pazza.”

“Così?”

“No, la mano destra è col dorso a terra, la sinistra… sì, così, esatto.”

Mette le mani in mezzo alle gambe, armeggia con un pezzo di carta, un depliant o qualcosa del genere. “Andiamo sotto.” Indica le scale e si alza.

“Andiamo via, piuttosto!”

“Se non vuoi scoprire quello che è successo vai dove ti pare. Io devo capire.” I suoi occhi neri lampeggiano e poi tornano vuoti. Scende. La cucina è piccola. Ormai la luce è poca, i fari delle macchine illuminano a tratti la stanza e le ombre corrono sulle superfici di resina. Il lavandino è rigato d’acqua, il frigorifero è aperto, c’è odore di rancido. Un fornello a gas a quattro fuochi, bianco e arrugginito, sopra di esso i pensili di finto legno ingiallito. Lei apre tutto, infila la testa dappertutto.

“Ok. Abbiamo giocato abbastanza ai poliziotti. Io me ne vado. Hai capito? Ti lascio qui.”

“Devi scegliere: o dai retta ai sensi di colpa o li ignori.”

“Io non ho sensi di colpa.”

“Ah no?” Fa lei continuando a ficcare il naso negli sportelli.

“No.”

“Perché sei tornato dalla polizia? Se hai fatto tutto il possibile che ci sei tornato a fare?”

“Che c’entra?”

“Vuoi giustizia perché sai di essere stato ingiusto con lei.”

“Cosa ne puoi sapere tu?” Stringo i pugni, serro i denti.

“Fammi indovinare.” Dice mentre guarda il bordo del lavandino con gli occhi strabici. “Marzia. Ragazza problematica. Affronta male i problemi di famiglia, frequenta brutte compagnie, prende roba, sparisce per settimane e tu le corri dietro, la vai a riprendere in postacci come questo, finisci in qualche brutto guaio. Lei ti accusa di essere uno stronzo insensibile, tu ti incazzi, te ne vai. Lei torna con la coda fra le gambe, promette di disintossicarsi, va’ in comunità, torna di nuovo, ricomincia da capo e tu ti arrendi con lei.”

Sospiro. “Chi te l’ha detto?”

“Pensi sia capitato solo a te? Ora che lei è morta ti senti una merda, e ti aggrappi alla speranza che vi sia un colpevole per alleviare la tua vergogna perché sei un prete e i preti non abbandonano le persone.”

“Smettila.”

“Beh, consolati.” Dice e mi dà una pacca sulla spalla. “C’è di più dell’overdose.”

McDonalds ore 19:45

“Maschio o femmina?” Chiede la ragazzina svogliata con l’apparecchio ai denti e la maglietta a righe. Il giudizio pessimo che ha di me è così palpabile che ringrazio Dio di non portare il collarino. Mentre mette una coca annacquata e la scatolina di cartone nel vassoio, guarda torva Skinny che siede al tavolo alle mie spalle.

“Ecco.” Appoggio il vassoio. “Mi vuoi spiegare?”

Skinny prende dalla tasca il sacchetto di plastica di prima, lo apre, piazza il cavallino rosa di fianco al vassoio. Sorride.

“Allora?”

“Prima chiedi scusa.”

“Scusa? E di che?”

“Di avermi giudicata.” Apre la scatolina di cartone, prende un altro maledetto cavalluccio e se lo mette in tasca. Poi estrae il minuscolo hamburger e le patatine.

“Ok. Scusa se ti ho giudicata.” Soffio. “Adesso mi spieghi perché dici che Marzia è stata uccisa?” Abbasso la voce perché la ragazza alla cassa ci sta ascoltando. Skinny addenta il panino, mi guarda e scuote la testa.

“Tu pensi che io sia scema.”

“Come faccio a pensare che tu sia scema? Ti conosco da due ore.”

Skinny tira su col naso, fa un altro morso, sorride. “Se lo pensassi dopo avermi conosciuta non mi sarei mica offesa.”

“Mettiti nei miei panni.” Le dico. Porto le mani alle tempie, sento la pressione alzarsi. “Mia sorella è morta, e morta male. Continuo a pensare che avrei dovuto fare qualcosa di più, la polizia ha chiuso la questione in due parole e arrivi tu dal nulla, completamente fusa, e giochi a fare Sherlock Holmes in una casa abbandonata.”

“Ho studiato antropologia forense.”

Rimango a bocca aperta.

“Perché mi guardi così? Tu meglio di altri dovresti sapere che anche i tossici sono persone, o no?” Si lecca le dita, piega la carta del panino.

“E come ci sei finita… voglio dire…”

Skinny alza la testa di scatto, mi fulmina con lo sguardo, serra le labbra. “Sono cazzi miei.” Scandisce e poi torna con lo sguardo basso, mangia le patatine una alla volta. Le finisce, piega il sacchetto di carta e non mi rivolge più la parola.

“Hai ragione.” Ammetto alla fine. “Ti ho giudicata una vecchia punk cretina.”

“Grazie. Scuse accettate.”

“Davvero pensi che Marzia sia stata uccisa?” Mentre lo dico un buco mi si forma nello stomaco, un vortice di acido e paura, mi serve un Maalox. Lei mette la mano in tasca, prende il sacchetto, lo apre e allinea il cavallino azzurro davanti a quello rosa, le sue pupille si dilatano.

“Skinny?”

“Sì?”

“Spiegami, Santo Iddio.”

“Facevi boxe da ragazzo?”

“Sì, ma che c’entra?”

Lei ridacchia. “Niente. Hai il naso da pugile e le ossa zigomatiche asimmetriche, sembri uno che ha preso un bel po’ di botte.”

Mi tocco la faccia. “Per favore…”

Delusa si concentra sui cavallini, li avvicina muso contro muso e li osserva attentamente. “Cosa hai notato quando siamo entrati nella casa?”

“Che era un casino, abbandonata, un ritrovo di tossici.”

Lei fa schioccare le labbra. “No. Sbagliato. Pregiudizi.”

“Pregiudizi?”

“Ripeti sempre quello che dico?”

Alzo gli occhi al cielo, inspiro col naso.

“Vuoi picchiarmi?” Si tira indietro sulla sedia, tira su le gambe, un tremito la scuote tutta.

“No, Santo Cielo, no. Ma come ti salta in mente?”

Mi guarda di sottecchi, abbassa le gambe sospettosa.

“Era pulito.” Dice dopo un bel pezzo.

“La casa non era pulita, era piena di cicche, di immondizia.”

Lei fa di no con la testa. “Il primo piano era pulito, ok, vetro rotto, non si può avere tutto, ma era pulito. E la cucina? La cucina è stata usata, c’era il caffè solubile e macchie di caffè sotto al ripiano del lavandino.”

“Sì ma sopra era proprio la classica casa da tossici.”

La classica casa da tossici.” Fa lei con un sorriso trionfante.

Io scatto indietro così forte che la ridicola seggiolina del locale quasi si spezza. “Come? Chi? Perché?” balbetto.

Skinny si fa avanti. “Le domande che devi farti non sono queste. La domanda giusta è una: che gliene frega a Raul se tua sorella è morta?”

Parrocchia degli Angeli Custodi ore 22:00

“In macchina non ha spiccicato parola. Se ne è stata con le gambe tirate su, fissa sulla linea di mezzeria. Mi ha chiesto di portarla in via Carlo Goldoni. Io guido e poi mi fermo nel parcheggio del centro commerciale.”

Padre Aroldo toglie il bricco dal fuoco e versa l’acqua calda nella tazza. L’odore orribile di una tisana riempie la nostra cucina. Emette solo un mugugno per farmi capire che sta ascoltando.

“Sei sicura di voler scendere qui? Le chiedo mentre apre la portiera. Lei risponde sì. Per fortuna era ancora giorno ma già si vedevano figure losche in giro dietro i cartelloni pubblicitari.”

Padre Aroldo strizza la bustina e la butta nell’umido. Indossa un maglioncino grigio da prete, ha i capelli bianchi come la neve, sembra Walter Matthau a fine carriera. Con le dita magre e gialle di nicotina prende la tazza per il manico e si siede davanti a me.

“Povera ragazza.”

“Abiti qui? le chiedo. E lei? Lei mi guarda come se fossi scemo.” Alzo le mani, scuoto la testa.

“Cos’altro potevi fare?” Padre Aroldo è cintura nera di domande retoriche.

“Che potevo fare? Niente.” È inutile parlare con lui. Sarà l’età, sarà che ha fatto la guerra, non lo so. Io ripenso solo a lei che diventa sempre più piccola nel lunotto posteriore, ferma in mezzo alla strada come una deficiente. “Solo che ha ragione lei.” Bisbiglio.

“Sì. Ha ragione lei.”

“Eh?”

Padre Aroldo annuisce, gli occhi ingrigiti dagli anni e un po’ lucidi che mi guardano intensamente. “Che ti senti in colpa per tua sorella.”

Mi volto, fingo di cercare il cellulare. “Pioveva la sera in cui le ho detto di non cercarmi più, che era l’ultima volta che l’andavo a prendere. È scesa dalla macchina, quasi si è buttata giù. Si è messa a correre sulla tangenziale. Io sono uscito, faceva un freddo cane, l’ho chiamata ma poi sono risalito e non mi sono voltato indietro.”

Padre Aroldo mi appoggia una mano sull’avambraccio, ignora i miei occhi lucidi. “Ci sono persone che non possono essere aiutate. Lo so che detto da un prete sembra una bestemmia ma anche Dio ci lascia liberi di sbagliare, e non puoi prenderti tu tutti i fardelli degli altri.”

Sorseggia in silenzio la sua brodaglia. Io avvampo, vorrei mettergli le mani addosso, ma respiro. Tutto sommato ha ragione pure lui, hanno ragione tutti, tranne me.

“Non posso fare a meno di pensarci.” Confesso e appoggio i gomiti sul tavolo per non fargli vedere che mi tremano le labbra. “Voglio dire: se le fossi rimasto accanto ora magari non sarebbe morta.”

“E magari saresti morto tu. O tutti e due. O qualcun altro al posto suo. Sarebbe stato meglio?”

“Quindi? Cosa mi consigli? Lasciar perdere tutto? Pregare?”

Padre Aroldo appoggia la tazza con vigore, schizza la tovaglia di plastica a fiori. “Non ho detto questo. Se stai cercando di salvare il mondo sta certo che non lo salverai da solo. Se provi a cambiare il passato sai che non è possibile. Ma se stai cercando giustizia, questa è tutta un’altra faccenda, ragazzo mio, e non arrogarti il diritto di sapere come andranno le cose. Pensa a com’era la tua vita e com’è adesso.”

Ci penso. Da ragazzo mi volevano sbattere in riformatorio. Ero violento, ho anche un paio di denunce per aggressione sulle spalle, e ho quasi ammazzato uno sul ring. Mi piaceva la boxe, ero bravo, ma non mi sapevo controllare. Poi nostra madre è morta. Era lei a tenere insieme i quattro sfigati della famiglia: io, Marzia, mia nonna Adele e il cane. Marzia, crescendo, diventava sempre più ingestibile, la odiavo, ho iniziato a bere, tornavo tardi, facevo a pugni, ero quello che doveva finire morto ammazzato o in galera e invece è avvenuto il miracolo. Non può essere altro. Torno a casa, una sera, apro la porta di casa e trovo nonna Adele addormentata sul tavolo, illuminata dalla televisione, il mio posto apparecchiato, un piatto bianco cupo con sopra un piatto piano a coprire la cena. Non so cosa sia successo, davvero, ma mi sono accasciato sulla sedia come se avessi preso il peggior destro della mia vita dritto in faccia. Sono rimasto fermo a lungo fissando la vestaglia scura che andava su e giù a ritmo del suo respiro. Non so se è stato Dio a parlare, o la coscienza, o il diavolo in persona, non lo so: “Che cazzo stai facendo, Fausto?” ho sentito. “Che cazzo fai?”

Padre Aroldo mi sorride, finisce la tisana puzzolente e mette la tazza nel lavandino. Sento una lacrima che mi scivola sulla guancia, sento il peso della goccia sui pantaloni.

“Hai fatto sempre del tuo meglio.” Dice. “Abbi fede. Io vado a letto.”

“Buonanotte.”

Rimango solo, il ticchettio dell’orologio alla parete mi ipnotizza, sono stanco eppure non riesco a fermare i pensieri e le domande e le immagini. Una telefonata anonima, penso, chi l’ha fatta? Qualcuno che passava da quelle parti? Su una strada trafficata guardando in una casa abbandonata? Impossibile. Tutti si tengono alla larga da posti del genere. L’odore? Qualcuno ha sentito l’odore? No.

Non era passato abbastanza tempo, lo so, non è certo il primo morto che vedo. La pazza ha ragione: che gli importa a Raul? Annaspo nei pensieri, cercando di tenermi a galla, ma devo essermi appisolato perché il vibrare della sedia mi fa scattare in piedi. Prendo il cellulare col cuore in gola.

“Ho capito tutto.” Leggo su WhatsApp.  Segue una faccina con gli occhiali e un indirizzo nei pressi dello svincolo della statale. Non dice altro. Numero sconosciuto.

“Quando diamine mi ha preso il cellulare?” Impreco mentre scendo le scale a due a due.

Motel Milaedu ore 23:00

“Alta sul metro e cinquanta, magrissima, ha addosso una maglietta dei Ramones. Andiamo, non è possibile che lei non l’abbia vista.” Sorrido a denti stretti. L’omino calvo dietro al bancone gioca a fare il misterioso.

“Se non mi dice un nome come faccio a chiamarle la camera? Io devo mantenere una certa privacy, lo capisce?”

Il motel è una struttura bassa, bianca, protetta da una recinzione abbastanza nuova con un unico cancello d’ingresso per le auto e le persone. Ho buttato la macchina nel parcheggio tra altre cinque e sono entrato nella reception come una furia. C’è un solo lampadario in mezzo al soffitto che fa una luce rossastra, l’omino sembra Nosferatu in agguato tra le ombre e io ho voglia di spaccargli la macchinetta del bancomat sulla fronte.

“Senta, cosa vuole? Soldi? Non siamo in un film.”

“È della Finanza? I miei conti sono in regola.”

“Sto cercando una ragazza, mi ha inviato un messaggio, non ho idea di come si chiami.” Riepilogo, caso mai questa volta riesca a capire.

“Allora è della buoncostume.”

Vuoi la guerra? Bene. “Cerchiamo di capirci.” Intimo smettendo di sorridere.

“Non mi minacci.”

Prendo il celebret dalla tasca e glielo metto davanti agli occhi. Lui lo guarda, aggrotta la fronte, ci mette un po’ a decodificare che si tratta del tesserino dei preti. “Non la sto minacciando. La ragazza ha gravi disturbi mentali, ha tentato il suicidio molte volte, e io, Dio mi perdoni, sono l’unico a cui dà retta. Se mi fa perdere altro tempo magari dovrà chiamare un carro funebre, e non serve che le spieghi cosa succede agli alberghi dove trovano morta la gente.”

Il sorrisetto del proprietario si spegne in un attimo, mentre il mio si accende di superbia. Però quando ci vuole ci vuole.

“Stanza dieci, in fondo al corridoio. La seguo, Padre.”

“Non ci pensi nemmeno.” Rispondo meno cortesemente di quanto vorrei.

La stanza dieci è l’ultima del corridoio male illuminato. Il naso prude per la troppa polvere, sento qualche suono inequivocabile provenire dalle altre camere. Incrocio una coppia uscire dalla sette. Lei ghigna e si sistema i capelli, lui abbassa lo sguardo.

Busso.

“Ce l’hai fatta finalmente.” Dice Skinny aprendo uno spiraglio.

Entro, lei getta uno sguardo al corridoio e poi chiude la porta. La stanza è minuscola e puzza di chiuso, la tenda bianca alla finestra è tirata. C’è un letto matrimoniale sfatto, moquette azzurrina, un aggeggio con delle fasce per appoggiare gli abiti. Sull’aggeggio una giovane donna dai capelli nerissimi siede con le gambe strette, gli occhi arrossati e una mano alla bocca. Non piange ma di certo ha pianto molto. Avrà una ventina d’anni, indossa una tuta anonima, scarpe da tennis.

“Catina.” Dice Skinny indicandola. “Lui è Melis.” Dice invece indicando me. “Catina è un nome vero.” Aggiunge come se avesse scoperto l’atomo.

“Sono Padre Fausto.”

La donna ha gli occhi azzurri che spiccano nel rosso dei capillari gonfi, poi sposta lo sguardo su Skinny che si rivolge a me. Io vorrei tanto prenderla da parte e farle sputare tutta la questione ma la camera è talmente piccola che non ha proprio senso e Catina è così spaventata che non voglio lasciarla sola. Mi limito a tenere la voce bassa e abbastanza calma: “Che significa tutta questa storia? Chi è lei?”

“Lei è il motivo per cui Marzia è morta.” C’è un ché di trionfale nella sua voce, e Catina scoppia in lacrime.

“Ma ti pare?”

“Ma è vero.”

“Cristo.”

Skinny fissa le labbra della giovane che si fanno pallide e si piegano e tremano, con l’indice si graffia il pollice compulsivamente.

“Tu sei il fratello?” Catina tira su col naso, si asciuga le lacrime con la manica. Ha un forte accento dell’est.

“Sì.”

“Parla spesso di te.”

Mi siedo sul letto, mi gira la testa.

“Te l’ho detto che ci viveva qualcuno.” Bisbiglia Skinny.

“La smetti?” Skinny chiude la bocca. È un attimo e io capisco la situazione, mi rialzo come punto da un’ape.

“Raul! Lavori per lui?”

“Non volevo più.” Dice lei. “Non voglio più.”

“Non vuoi più. E Marzia? Anche lei si prostituiva?”

“No, lei no.” Dice Skinny e apre la porta per sbirciare nel corridoio, richiude.

Io sono fuori di me, mi piego sulle ginocchia davanti a Catina, le afferro i polsi. “Abitavate lì, insieme? Che c’entri tu con lei? Cosa è successo? Vi facevate tutte e due?” Mi accorgo che non capisce bene quello che dico, allento la presa.

“No.” Scuote la chioma di capelli. “Voleva smettere. Marzia voleva smettere. Andare via.”

Mi gira la testa, apro la bocca come un pesce.

“Dovevamo andare via. Ho aspettato qui. Io sono tornata alla casa, ma c’era una macchina, non dovevo farmi vedere, sono tornata qui, ho aspettato.” Butta giù saliva e dolore, io non sono certo di capire cosa voglia dire, socchiudo gli occhi e in quel momento Skinny mi prende per la giacca e mi fa alzare.

“Non adesso.” Ordina. “È arrivato Raul.” E mi spinge nel bagno.

Deve essere stato l’istinto, o qualcosa del genere, ma non mi oppongo. Indietreggio verso la doccia sudicia, chiudo la porta e resto al buio.

Due colpi alla porta d’ingresso. Catina lancia un grido, Skinny apre. Passi pesanti sulla moquette, un uomo entra, un altro se ne va lungo il corridoio correndo, di certo il proprietario del motel.

“Ah, eccoti qui!” Dice una voce maschile, nasale ma bassa, e con un certo accento milanese. “Bravo il mio cane da caccia. Non ci volevo credere quando mi hai chiamato, ma te sei proprio brava.”

“Non voglio roba.” Risponde Skinny. “Voglio soldi e tu non mi hai mai vista.”

“Va bene, va bene, ne parliamo dopo. Adesso devo fare due chiacchiere con questa stronza.”

Catina risponde qualcosa in russo, sento uno schiaffo, un tonfo e il letto che cigola.

“Cosa pensavi eh? Di poter scappare da me? Eh? Questo credevi! Ti ho pagata cara, e ti ho dato tutto, e tu te ne scappi con una tossica? Eh? Te la faccio passare io la voglia!”

Afferro il portaasciugamani a pedana, spalanco la porta del bagno e salto fuori. Raul è un tipo palestrato, maglietta attillata a maniche corte, rasato, sopracciglia ben curate, abbronzatura e risvoltini. Catina è sul letto, piange, io abbatto il portaasciugamani sul collo di Raul che lancia una bestemmia e si gira. Cazzo, è forte, o forse non l’ho preso bene, ha la mascella quadrata, occhi feroci, e mi molla un destro al volto. Alzo la guardia ma barcollo e inciampo nella seggiola, sto in piedi per miracolo, e me ne arriva un altro allo stomaco. Raul si diverte, conosco quello sguardo e sento il sangue che mi va al cervello: è colpa sua, è tutta colpa sua. Si fa avanti, scatta, un rapido uno-due un po’ grezzo ma veloce, i suoi pugni colpiscono i miei avambracci, grugnisco di dolore. È tutta colpa sua, solo sua. Incalza, un gancio, un diretto, fa male, è più giovane di me, più veloce, ma io ho esperienza da vendere. Faccio una finta di corpo, lui ci casca, e metto a segno un diretto al naso, barcolla, un altro alla mascella e un gancio che lo fa volare contro la tenda che si strappa. Finisce a terra, la tenda lo copre, si vede una macchia di sangue allargarsi sul tessuto.

Catina si siede sul letto, respira forte. Skinny è in un angolo, trema, stretta nelle braccia. Mi avvicino, si ripara con le mani ma io la abbraccio lo stesso.

“Grazie,” le dico. “Grazie.”

Parrocchia degli Angeli Custodi ore 10:00.

I fedeli escono producendo un rumore di risacca lontana. Aiuto Padre Aroldo a togliere i paramenti e a chiudere tutto. La sa lunga, il vecchio prete. Non ha fatto domande, anche se sono tornato all’alba con un occhio pesto e zoppicando, e ha detto messa al posto mio. Gli spiegherò tutto a tempo debito, tanto la polizia telefonerà in parrocchia, inutile mentire. Appena torna di sopra esco dalla chiesa. La via è assediata dalle auto parcheggiate dei condomini, c’è un bel sole ma io faccio fatica a respirare. Skinny è sotto il loggiato dell’atrio del palazzo di fronte, vedo spuntare solo le scarpe e quel suo assurdo giubbotto.

“Cosa fai? Ti nascondi? Potevi entrare in chiesa.”

Lei fa spallucce. “Meglio di no.”

“Vuoi entrare? Vuoi un caffè?”

“Non bevo caffè.”

“Va bene. Stiamo qui allora.”

“Lo hanno arrestato?”

“Sì, mi hanno fatto un sacco di domande e credo mi chiameranno a testimoniare. Ti prometto che starà fuori dai piedi per un bel pezzo, e Catina ora è presso una comunità specializzata. Vedrai, sarà al sicuro.”

Skinny fa di nuovo spallucce.

“C’è qualcosa che mi vuoi dire?”

Annuisce. “È il tuo istinto di prete?”

“Oppure non sono del tutto stupido. Tu non sei venuta da me perché te l’ha detto Raul.”

“Sono brava a trovare la gente.” Fa lei come se ammettesse un brutto peccato. “Raul cercava questa ragazza russa, non sapevo altro, e ho bisogno di soldi. Lui mi ha riso in faccia ma mi ha detto che andava bene, che se la trovavo lui mi avrebbe pagato. Ho fatto qualche domanda in giro, le zone in cui si trovava di solito la ragazza, e poi ho saputo della tossica morta… di tua sorella morta, e ho pensato potesse essere collegato.”

“Non è Raul ad avere gente nella polizia, vero?”

Skinny scuote la testa. “Ex-colleghi.”

“Ah.” Incrocio le braccia sul petto, tamburello con le dita.

“Sei arrabbiato con me?”

“Che ti devo dire? Non lo so. Sì, penso di sì. Hai finto di volermi aiutare, di voler scoprire chi ha ucciso Marzia, ma stavi solo cercando di trovare Catina e farti pagare.”

Skinny sbatte le palpebre più del solito. “Ero io ad aver bisogno del tuo aiuto.”

“Il mio aiuto?”

“Non la smetti di ripetere quello che dico?” Sorride imbarazzata. A modo suo è bella quando sorride.

“No. A cosa ti serviva il mio aiuto? Anzi, sai una cosa? Non voglio saperlo.”

Lei annuisce in silenzio. Io mi giro per andarmene, che senso ha fare altre domande? Ma poi penso alla casa, a Marzia, all’obitorio, e torno sui miei passi, glielo devo.

“Che cosa hai visto in quell’appartamento che né io né la polizia abbiamo capito?”

“Persone.” Risponde piano.

“Persone?”

“Persone. Sì. Tu hai visto tua sorella morta. La polizia ha visto una tossica morta. Io, invece, ho visto due persone che vivevano insieme e si aiutavano. Il piano di sotto era pulito, c’era la luce, due sedie, due tazze, le confezioni di due tramezzini. E c’era il caffè, la cucina usata. Non usi la cucina in un posto dove ti fai e basta.”

“Marzia ha ospitato Catina, per aiutarla a scappare da Raul?”

“Volevano scappare insieme, non so altro.”

“Ma perché andare lì? Perché non prendersi una stanza o un treno, che ne so?”

“Catina non ha documenti, e Marzia dava troppo nell’occhio. Raul l’avrebbe scoperto, non potevano fidarsi di nessuno. L’unica cosa era racimolare un po’ di soldi per andare via con qualche autobus.”

“Che senso ha? Non poteva chiedere aiuto?” 

Skinny si rabbuia, abbassa gli occhi, rimane ferma immobile. “Nessuno ascolta quelli come noi, capo. Chi le avrebbe creduto?”

“Nessuno,” ammetto con un groppo alla gola. “Nessuno, nemmeno io.”

Le pupille di Skinny si dilatano. “Dovevano partire la mattina seguente. Marzia prenota una stanza al motel vicino alla fermata del bus notturno per Bologna. Accompagna Catina ma non si fa vedere, le consegna tutti i soldi, e torna a casa per prendere il resto della roba, ma qualcosa va storto.”

Io affondo la testa tra le mani, appoggio la schiena alla colonna di cemento.

“Forse vede una macchina sospetta, o qualcuno degli sgherri di Raul che gira lì intorno, non so. È costretta a nascondersi e capisce che se non fa qualcosa in fretta Catina è spacciata. Allora prepara la sceneggiata. Rovescia la roba, porta via il secondo materasso per far sembrare che sia sola, butta via tutto dalla finestra e chiama il 113.”

“Ma se è stata lei a chiamare la polizia, non poteva semplicemente andarsene?”

Skinny si morde le labbra, si gratta il pollice con l’indice e poi continua: “No. Non poteva. La polizia sarebbe arrivata, avrebbe fatto un breve giro della casa, e sarebbe andata via. Marzia allora va di sopra, prepara la siringa, sa esattamente cosa fare, ci mette un attimo, e poi la getta via tra la sporcizia. Nasconde il depliant dell’albergo, forse lo guarda, e stende la mano destra come se Catina fosse lì vicino a lei.”

Io piango, piango appoggiato alla colonna di cemento. “Perché?”

“Era l’unico modo per guadagnare tempo. Con la polizia, l’ambulanza, e i curiosi in giro per il quartiere, Raul non avrebbe potuto cercarla.”

“È assurdo. Ma Catina non è partita!”

“Catina l’ha aspettata per tutta la notte. Si è spaventata, è andata nel panico. Ha pagato per un altro giorno sperando che Marzia la raggiungesse.”

“Non posso credere che non ci fosse un’altra soluzione!” Grido.

Skinny si fa piccola, ammutolisce. “Non lo so, forse.”

“Scusami.”

Lei rimane rigida, l’ho spaventata. I suoi occhi si muovono nervosamente scrutando ogni mio movimento, poi si calma. “Io credo che lo abbia fatto anche per un altro motivo.”

“Quale?”

“Pensaci, capo. Le voleva bene, voleva vederla felice, libera, salvarla da quella vita. Sapeva cosa le sarebbe successo e non poteva portarla nel suo inferno. Magari ha rivisto sé stessa in lei, ha visto la speranza, e voleva darle di più, una vita migliore della sua.”

Le lacrime si fermano di colpo, sento il petto leggero.

“Se anche fossero riuscite a fuggire insieme, Marzia l’avrebbe sempre messa in pericolo. Nei momenti peggiori l’avrebbe tradita per qualche grammo, o costretta a vendersi, o chissà cosa.”

La mia sorellina, incosciente ed egoista, quella che sfila i soldi dal portafogli, che ruba nelle case degli amici, che scappa sotto la pioggia via dalla comunità, che si sacrifica per amore. “Una drogata di merda che diventa un angelo custode.” Dico sorpreso di me stesso.

“A volte per fare la cosa giusta bisogna fare quella più sbagliata.”

Apro le braccia sconfitto, esco al sole, chiudo gli occhi. Lo so, è follia, ma sono contento. Comincio a camminare per la via, le mani in tasca, l’anima leggera, ma tengo ancora il broncio.

“Il mio aiuto ti serviva per farti da guardia del corpo?”

“All’inizio sì. Era tua sorella, pensavo saresti venuto, e così sarei stata più al sicuro.”

“E poi?”

Skinny abbassa gli occhi ai piedi. “Quando ho capito dove poteva trovarsi la ragazza ti ho lasciato andare, Raul non mi avrebbe mai pagata sapendo che c’eri tu di mezzo. Ma quando l’ho sorpresa nel motel e mi ha raccontato tutto, ho capito che non potevo lasciare che la facesse franca. Marzia sarebbe morta per niente.”

Camminiamo per un bel pezzo in silenzio. Il rumore del traffico è quasi piacevole. La gente ci guarda, alcuni cambiano marciapiede, ma per quanto mi riguarda possono anche rispettosamente andare al diavolo.

“Capo? Ehi?”

“Sei una stronza bugiarda.” Dico senza fermarmi. “E non voglio vederti mai più.” Lei si blocca in mezzo al marciapiede. Io faccio qualche altro passo e poi mi giro. Sento le labbra piegarsi in un sorriso che sa di amaro: “Ma sono felice di averti aiutato. Addio.”

Rimetto le mani in tasca e continuo a camminare. Chi è senza peccato scagli la prima pietra, giusto? Una donna che ha causato tanto male è morta, e nel farlo ha donato una vita migliore a un’altra. Non è forse redenzione questa? Non ha fatto meglio di me? Inghiotto la mia colpa e imbocco il corso. Mi immergo tra la gente, i turisti, le auto in fila. All’altezza della metro di Porta Romana sento tirare la giacca, mi fermo, massaggio gli occhi.

“Che vuoi?”

“Sei ancora arrabbiato con me?”

“No, Skinny, no.”

Lei sorride, mette la lingua tra i denti. “Allora me lo compri un Happy Meal, capo?”

Alzo lo sguardo, la emme gialla è proprio davanti a noi, mi viene da ridere.

“Certo Skinny, tutti quelli che vuoi.”

Fine